1997 a Milano, il più grande manifesto di sempre di prevenzione per l’Aids: lo “zio Gino” consiglia di fare come lui ha sempre fatto, usare il preservativo (Ansa)

Il gioco perverso delle paure

Covid e Aids a confronto. Perché una pandemia ci terrorizza e l'altra no

I canali di trasmissione dell'Aids oggi si sono estesi nel segno dell'emarginazione, della discriminazione e anche della criminalizzazione dei gruppi a rischio

Roberto Volpi

Molte le analogie, ma ancora di più le differenze. A cominciare dal numero infinitamente maggiore di morti per Hiv. Ma la partecipazione a questa tragedia non è stata paragonabile

In uno dei due casi, quello più vicino a noi, furono le autorità sanitarie cinesi. Nell’altro, che dista ormai la bellezza di 44 anni, fu un giovane immunologo, assistente di Medicina all’Università della California di Los Angeles. A fare cosa? Forse a dare un motivato allarme per la salute pubblica? Senz’altro non Michael Gottlieb, il giovane assistente, che si limitò a documentare il quadro patologico che aveva di fronte con scrupolo, non avendone affatto chiara l’importanza. Le autorità sanitarie cinesi, piuttosto – forse sapevano più di quello che dicevano di sapere, o forse no; forse avevano tenuto nascosta la notizia nella speranza di controllare gli eventi e di evitare che la Cina fosse messa sul banco degli imputati; o forse no. Fatto è che il 31 dicembre 2019 quelle stesse autorità notificarono un focolaio di casi di polmonite a eziologia non nota nella città di Wuhan (provincia dell’Hubei) a seguito di un’esposizione al Wuhan’s South China Seafood City Market. Dopodiché, comunicazioni ed eventi precipitarono velocissimamente – chissà se proprio a compensazione di precedenti ritardi di comunicazione. Il 9 gennaio 2020, il China Cdc (il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie della Cina) identificò un nuovo coronavirus, provvisoriamente chiamato 2019-nCoV, come causa eziologica di queste polmoniti. Le stesse autorità sanitarie cinesi confermarono la trasmissione interumana del virus. L’11 febbraio 2020 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) annunciò che la malattia respiratoria causata dal 2019-nCoV si sarebbe chiamata Covid-19 (Corona Virus Disease). Un mese dopo, l’11 marzo 2020, sempre l’Oms, dopo aver valutato i livelli di gravità e di diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2, denominazione definitiva del virus, dichiarò che l’epidemia di Covid poteva considerarsi a tutti gli effetti una pandemia: un’epidemia su scala globale, mondiale.

 
Quella che a tutta prima potrebbe sembrare una coincidenza è che anche Michael Gottlieb osservò nell’autunno del 1980 cinque casi di una particolare forma di polmonite. Non precisamente una polmonite a eziologia ignota, ma senz’altro insolita, causata da un fungo (protozoo) chiamato allora Pneumocystis carinii, poi ribattezzato Pneumocystis jirovecii. Ma c’erano almeno quattro particolarità che non quadravano in quei casi e Gottlieb, giovane acuto e preparato, ne intuì subito la portata e pubblicò, con altri colleghi, un tanto sintetico quanto rigoroso resoconto nel giugno del 1981, il primo delle migliaia e migliaia di articoli scientifici sull’Aids (allora lontanissimo dal chiamarsi così) che avrebbero inondato il mondo negli anni che seguirono. Le quattro particolarità sono rimaste scolpite nella pietra: 1) i cinque casi di polmonite riguardavano cinque giovani omosessuali sessualmente attivi, 2) il sistema immunitario dei cinque pazienti non riusciva a neutralizzare il protozoo responsabile di quelle polmoniti, cosa che un normale sistema immunitario umano riusciva a fare senza difficoltà, 3) tutti i pazienti soffrivano anche di stomatite da Candida albicans, un’altra infezione fungina che provoca in bocca  una sorta  di mucillagine biancastra, e 4) nel sangue dei pazienti fu accertato che i linfociti (globuli bianchi) T, fondamentali per la risposta immunitaria, erano, secondo le parole dello stesso Gottlieb,  “pressoché scomparsi”.


Ciò detto, le analogie tra Covid-19 e Aids sono almeno tre: a) si manifestarono attraverso casi di tipi particolari di polmonite, b) addebitabili tanto a Wuhan nel 2019 che nella Los Angeles del 1980 all’azione di virus che c) si scoprirà poi essere retrovirus, entrambi passati all’uomo con un salto di specie dagli scimpanzé. Le polmoniti non erano le stesse e, va da sé, non erano gli stessi i virus. 


Ma c’è ancora un’analogia, questa però non intrinseca, esterna, per così dire, alle due infezioni, tanto appariscente quanto nefasta: la loro capacità di mietere vittime. Nel maggio 2023, quando l’Oms dichiarava finita l’epidemia di Covid-19 ne stimava le vittime in 7 milioni. Quanto all’Aids, stime internazionali convergono nel giudicare i morti provocati fino ad oggi compresi in un intervallo che va dai 35 ai 51 milioni. Le stime più accreditate di quella che è considerata unanimemente la peggiore calamità epidemica dei tempi moderni, l’influenza Spagnola, vanno dai 20 ai 30 milioni di morti. Ora, per quanto anche la stima più bassa dei morti di Aids superi la stima più alta dei morti di Spagnola, il giudizio non è cambiato: la peggiore calamità epidemica dei tempi moderni continua ad essere considerata l’influenza Spagnola; nessuno dice che no, non è vero, che è all’Aids che spetta il primato – forse perché la Spagnola provocò un’ecatombe nel giro di un anno, mentre l’Aids dura da più di quattro decenni. E’ un curioso destino, questo dell’Aids, di non vedersi riconosciuto il primato dei morti. L’infezione senz’altro più controversa, discussa, indagata, analizzata, sezionata, illuminata. Quella che ha visto il mondo scientifico impegnato per anni prima in una furiosa lotta contro il tempo per individuare e isolare il patogeno responsabile e poi per approntare terapie adeguate, mentre tutt’intorno gli ammalati morivano come mosche tra dolori atroci; quella tra tutte più difficile da contrastare, senza mai essere vinta; quella che continua a fare morti a così tanto tempo dalla sua prima apparizione (David Quammen in Spillover ne ricostruisce il cammino fino a farla risalire con certezza al 1908, quando nel Camerun sudorientale il virus passò per la prima volta dallo scimpanzè all’uomo), è altresì l’infezione che quanto a preoccupazione generata nei governi, nelle autorità sanitarie  e nell’opinione pubblica mondiale non regge il confronto con quella, inerpicatasi fino a vette parossistiche, provocata dalla pandemia di Covid-19. Eppure quest’ultima ha provocato un sesto dei morti che ha provocato l’Aids.

 
Non è questione di diversità dei tempi e delle conoscenze scientifiche; o di una più alta sensibilità nel frattempo maturata di fronte a pericoli di questa natura; o di incapacità nel giudicare e distinguere tra eventi epidemici tanto estesi e drammatici. E’ più essenzialmente una questione di paura. Anzi, di due paure del tutto diverse tra loro.

 
Del Covid-19, tutti abbiamo avuto paura, a cominciare da quelli che cantavano sui terrazzi nei primi giorni del lockdown – un modo come un altro di esorcizzare proprio la paura. A cominciare dai governi, chiamati giornalmente a diffondere resoconti: tot casi, tot vittime; più di ieri, meno di ieri; indice di trasmissibilità in calo, in aumento; più in quest’area geografica, meno in quest’altra; e così via, distinguendo e dettagliando come in bollettini dal fronte di guerra – resi però ostentatamente pubblici affinché ognuno si rendesse conto di come stavano le cose, di quel che stavano facendo autorità e organismi pubblici e di quel che era richiesto a ciascuno  personalmente di fare: stare agli ordini, non divagare, non fare di testa propria. Alle 17 si affacciava in tv minimo il ministro della Salute, sovente il presidente del Consiglio, assistiti dalle massime autorità ed esperti dell’Istituto superiore di Sanità. Questo in Italia. Non così diversamente in altre parti del mondo. Non c’era nessuno disposto a perdonare alle istituzioni di non essere, o almeno di far vedere di essere, in prima linea nella lotta per sconfiggere l’epidemia. In Inghilterra sono arrivati a girare un’intera serie televisiva per raccontarci di come l’allora primo ministro Boris Johnson fosse non sufficientemente accorto e interessato al controllo della pandemia, al punto da organizzare feste a Downing Street mentre i suoi concittadini erano costretti in casa. Poteva un tale leader non essere sbalzato di sella alla prima occasione utile? E pace se magari non era così sprovveduto o menefreghista come lo si è dipinto, il buon Boris. La pandemia chiede anche altre vittime, oltre ai morti di Covid e a loro impossibile compensazione.


Non a caso in Italia si è da poco insediata la Commissione d’inchiesta parlamentare sulla gestione dell’emergenza sanitaria legata al Covid. Sotto esame per il loro operato tra gli altri l’allora capo del governo Giuseppe Conte e il ministro della Salute Roberto Speranza. Ne vedremo gli sviluppi. Dal 3 febbraio 2020 – primo Dpcm subito dopo l’individuazione del cosiddetto paziente 1 (si scoprirà più tardi non essere il primo) che prevede la quarantena di oltre 50.000 persone, tutti gli abitanti di dieci comuni del lodigiano e di un comune in provincia di Padova – è tutto un susseguirsi frenetico di Dpcm fino all’11 marzo, giorno del lockdown in tutta la penisola, che diventa così un’unica, impenetrabile “zona rossa”. Non si può uscire se non con una “autocertificazione”, per motivi di lavoro, di salute o per fare la spesa. Non ci si può sposare, annullati i funerali, sospesa ogni manifestazione sportiva, perfino gli esami per la patente. Si vive adattandosi, o cercando di farlo, a un regime di coprifuoco permanente nella speranza che il virus non trovi che il vuoto attorno e si spenga. 


Il 22 marzo un nuovo Dpcm fissa ulteriori limiti, ai quali nessuno si sognava di poter mai arrivare: vengono chiuse anche le attività produttive – a eccezione di quelle essenziali o strategiche. Restano aperti solo alimentari, farmacie, negozi di generi di prima necessità, servizi essenziali. Nessuno può spostarsi da un comune all’altro se non per comprovate necessità. Tra metà e fine marzo è il momento più duro, camion dell’esercito carichi di bare escono dagli ospedali di Bergamo, le vittime sono quasi mille al giorno. La paura, palpabile come l’aria pungente e la rugiada del mattino, è il sentimento dominante degli italiani. E degli inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, russi, cinesi e naturalmente americani e via e via geograficamente elencando. Immagini di città desolatamente vuote, non un’auto, un tram, un passante. Stazioni abbandonate. Fermate degli autobus senza autobus. Teorie di serrande abbassate. Di piazze senza piccioni. Di strade senza rumori. Solo un silenzio abissale, apocalittico. O post-apocalittico. Durerà fino a maggio.


Non ci abbiamo riflettuto abbastanza, ma il mondo mai aveva conosciuto una paura così prima del Covid: planetaria, simultanea. Con poche e irrilevanti eccezioni tutto il mondo è stato alle prese con l’epidemia pressoché negli stessi tempi e sapendo perfettamente in ogni parte del mondo quel che stava succedendo dalle altre parti. Così i mesi e gli anni del Covid sono stati tali in ogni contrada e regione e l’andamento del virus ha sovrastato ogni altra notizia, e la paura del Covid ogni altra paura. Mai l’umanità aveva attraversato una tale tenebrosa esperienza tutta insieme, tutta allo stesso tempo, tutta variamente ma non dissimilmente coinvolta, tutta consapevole. Tutta avvolta, intessuta in una paura primordiale di pericolo e di morte, di attesa e speranza.


Eppure, al tirar delle somme: un sesto dei morti provocati dall’Aids. Aids che con le sue decine di milioni morti non ha mai sollevato sentimenti così estremi e universali. 

 

L’Aids è avanzato nel silenzio. Tanto è stato rumoroso l’arrivo del Covid quanto discreto, felpato, nascosto è stato quello dell’Aids o per meglio dire dell’Hiv, il virus responsabile della trasmissione dell’Aids. Seguiamo David Quammen nel suo Spillover: “Arrivato negli Stati Uniti, agì in sordina per dieci anni e più, senza che nessuno se ne accorgesse. Si infilò in reti di contagio e contatto. Sfruttò in particolare certe opportunità in alcuni sottogruppi sociali (…) Arrivò agli emofiliaci attraverso i prodotti ematici. Arrivò ai tossicodipendenti attraverso la condivisione di siringhe. Arrivò ai maschi gay – in modo capillare e catastrofico, penetrando nelle reti affettive e amicali – attraverso la trasmissione sessuale”. Arrivò ancora più in là. Trasmesso dal sangue arrivò anche agli eterosessuali dalle vite sessuali particolarmente voraci, adusi a cambiare partner senza particolari accortezze. Ma non toccò, se non marginalmente, individui e coppie eterosessuali dalle abitudini sessuali che rientravano nel grande solco, del resto già assai ampio e variegato, della normalità. Ciò che fece e che fa la differenza, perché la difficoltà di trasmissione dell’Hiv e i canali particolari entro i quali circolava ne impedirono l’universalità che avrebbe rappresentato il formidabile marchio di fabbrica del Covid-19: il SARS-CoV-2, capace di infettare, ad oggi, cifra senz’altro sottostimata, 800 milioni di individui: un abitante della terra su 10, con proporzioni fino al 50 per cento della popolazione nei principali paesi europei: Francia e Germania, Italia e Inghilterra.


Non solo mancò all’Aids questa universalità. Mancò anche la simultaneità. Si guardi alle date. Il 9 gennaio 2020, il China Cdc (il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie della Cina) identificò il coronavirus responsabile della nuova infezione. L’11 febbraio 2020 l’Organizzazione mondiale della Sanità annunciò che la malattia respiratoria causata dal virus SARS-CoV-2 si sarebbe chiamata Covid-19. Ancora prima che ciò avvenisse, che la malattia, l’infezione avesse un nome, il 3 febbraio 2020 avremmo avuto in Italia il primo Dpcm che delimitava la prima “zona rossa”: 11 comuni del Nord messi in quarantena. Non ci fu soluzione di continuità, da nessuna parte: cambiò l’intensità della trasmissione, la diffusione del virus e il suo grado di letalità: ma il mondo conobbe la pandemia pressoché subito e simultaneamente. Ciò che contribuì enormemente a dare il senso della sua stessa gravità.


Ma l’Aids? Bisognerà aspettare il 1984, quattro anni dopo i primi casi, che non si sapeva fossero Aids, perché un team di epidemiologi dei Cdc pubblicasse un importante articolo dedicato al ruolo della trasmissione sessuale nella diffusione dell’Aids, tuttavia ammettendo che la causa dell’Aids rimaneva ancora sconosciuta. Non c’era l’assoluta certezza che si trattasse di un virus.  Ma quello stesso 1984 di orwelliana memoria sarà l’anno delle scoperte decisive di Montagnier e Gallo e del meno ricordato Jay A. Levy, e bisognerà aspettare fino al 1986, quando un comitato di esperti metterà la parola fine alle dispute: il patogeno responsabile dell’Aids era un virus e si sarebbe chiamato Hiv. 


In Italia il Centro operativo Aids dell’Istituto superiore di Sanità raccoglie i dati relativi alle notifiche di Aids proprio dal 1984, ma solo dal 2008 raccoglie anche i dati delle nuove diagnosi di infezione da Hiv, e non tutte le infezioni da Hiv sfociano in quello che si suol definire “Aids conclamato”, la malattia che aveva agli inizi un tasso di letalità che sfiorava il 100 per cento – praticamente nessuno si salvava – e che ancora oggi ne ha uno imparagonabile a quello del Covid-19. Il faticoso e lungo cammino alla scoperta dell’agente virale Hiv ha non solo rallentato la consapevolezza dell’Aids ma l’ha frammentata in tanti rivoli. Quel che nel Covid-19 è apparso subito chiaro, nell’Aids ha necessitato di tempo e grandi campagne di sensibilizzazione per aprirsi la strada. E, quando c’è riuscito, è rimasto confinato in ambiti tali – gli omosessuali, i tossicodipendenti – da apparire comunque un’epidemia circoscritta o circoscrivibile, e come tale controllabile, incapace di rappresentare un pericolo per le comunità e le società viste nella loro interezza. Il mondo non ha mai “sentito” – anche quando l’allarme era al suo massimo – l’Aids come una minaccia tale che lo investisse nella sua globalità. Tant’è che, partito dagli Stati Uniti, è oggi un male endemico soprattutto nell’Africa dell’est e del sud-est, dove si accalcano 21 dei 40 milioni di persone che vivono con l’Hiv, costantemente a rischio di cadere nell’Aids conclamato, malattia ancora oggi, nonostante le terapie antiretrovirali di maggiore efficacia, con assai elevati tassi di letalità. Il fatto che oggi i tre paesi col maggior numero di affetti da Hiv siano, nell’ordine, il Sud Africa, la Nigeria e l’India mentre nell’Europa occidentale e nel Nord America, la patria della prima grande esplosione dell’Aids, si conti complessivamente appena il 5 per cento dei casi in essere, ci suggerisce non solo che i canali di trasmissione non sono più soltanto quelli del passato, ma che si sono estesi nel segno dell’emarginazione, discriminazione e vera e propria criminalizzazione dei gruppi a rischio. Lavoratori nei settori del sesso, prostitute e prostituti, persone particolarmente attive sessualmente tra i 16 e i 29 anni, detenuti in strutture carcerarie di grave precarietà – oltre ai tossicodipendenti, oltre agli omosessuali, oltre agli emofiliaci che pure, segnatamente i due primi gruppi, hanno continuato a rappresentare la base d’elezione della malattia: sono questi i segmenti sociali che presentano oggi più alti tassi di infezione e le più alte probabilità di essere infettati in futuro. Segmenti che hanno via via allargato le possibilità dell’Aids di mantenersi vivo nonostante campagne di prevenzione e profilassi che per almeno venti anni non hanno conosciuto un attimo di sosta. Con questo di paradossale: più l’Aids conquistava nuovi gruppi e segmenti di umanità più si marginalizzava, più si allontanavano questi segmenti dalla normalità e dalla quotidianità del vivere meno paura l’Aids finiva per incutere.


Così, conosciuto e sperimentato in tutto il mondo, mai l’Aids è stato sentito come malattia universale, infezione globale. Anche negli anni del divampare dell’infezione e della sua forza letale, quando peraltro ancora alto era il grado della sprovvedutezza di fronte all’agire subdolo dell’Hiv, c’è stata sì partecipazione sentimentale alle sofferenze degli ammalati di Aids, destinati a un esito quasi sempre insieme molto doloroso e infausto; una partecipazione che ha preso mille rivoli solidaristici. Ma si sbaglierebbe a pensare che c’è stata in questa partecipazione sentimentale il senso di una paura più grande e generalizzata. Che si salvassero delle vite, possibilmente molte, tutte; che fossero risparmiate tante sofferenze, a maggior ragione in quanto vite e sofferenze soprattutto di giovani: questo si chiedeva, a questo mirava tutta quella partecipazione, quella vicinanza che mai è stata nel segno di una vera, consapevole paura. E quando tutto questo è venuto affievolendosi per il degradare dell’intensità dell’infezione e il suo defluire dall’occidente ad altre regioni del mondo, anche l’eco di una vera paura è cessata. Lo stesso procedere dell’Aids è stato all’insegna dell’autoemarginazione, perché provocato da comportamenti individuali avvertiti sempre più come disordinati, eccessivi. Non sempre è così, tutt’altro, in molte aree povere del mondo si campa, per forza ben più che per amore, su questi comportamenti; ma resta il fatto che il cammino dell’Aids verso segmenti più estremi ed emarginati delle popolazioni lo ha allontanato dal sentimento del mondo.

 

Non contano esclusivamente morti e casi. Di fronte a un virus che non conosce frontiere, a un’infezione che agisce su scala globale, a un’epidemia che diventa pandemia, anche altri elementi entrano in scena a reclamare posti da prim’attori. Attori che sanno incutere paura, che inchiodano lo spettatore alla sedia, che gli mozzano il respiro in gola, mentre esprimono il meglio, ossia il peggio, di cui l’azione di un virus è capace. L’universalità, intanto. Il fatto che nessun settore della società possa sentirsi al sicuro, protetto dal virus. La simultaneità, poi: il fatto che nessun paese, nessuna popolazione o comunità sia immune al suo passaggio, che sfreccia veloce da un capo all’altro della terra. E un terzo, infine, all’altezza di universalità e simultaneità nel Covid-19, ma se non proprio assente senz’altro mediocre nell’Aids: la non colpevolezza delle vittime. Sei ligio alle regole, non fai niente di azzardato, niente che non ti sia permesso di fare, e puoi essere colpito comunque? Ridotto in un letto in fin di vita, con la mascherina dell’ossigeno e altri intubamenti insieme modernissimi e barbarici solo perché non sei giovanissimo, non godi di una salute saldissima o hai avuto la sventura d’intrattenerti qualche minuto con un portatore del virus che neppure sapeva di esserlo? Ecco da dove si sprigiona la paura sottile, quella che ti costringe in una camicia di forza di comportamenti ai quali non penseresti mai e poi mai di abbassarti e che, passata l’emergenza, pensi che neppure siano così utili, una bardatura medievale o quasi che già t’immagini di contestare semmai si ripresentasse – incrociando le dita – un’altra occasione. Dall’incolpevolezza. Quell’incolpevolezza che origina la paura più vera perché smorta, sottotraccia, nascosta, inaccessibile, che forse non pensi neppure di avere, ma che pure entra “difesa dall’ombra della notte”, per dirla con Shakespeare, nei tuoi più segreti pensieri. L’abbiamo avvertita nella pandemia di Covid-19, con i suoi 7 milioni di morti, una paura così. Non in quella di Aids, che pure di morti ne ha fatti sei volte tanti. Questione di interpreti, di attori, non solo di morti. Tutti presenti e al loro massimo nel Covid-19; assenti o quantomeno deludenti nell’Aids.

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