Jaan Roose cammina sulla corda accanto al ponte fra Asia ed Europa a Instanbul (foto Getty) 

Anatomia dello stress

Mattia Manoni

Cosa lo provoca a livello organico e che rischi comporta per la salute. Tutto su una parola “giovane” nel vocabolario dagli anni cinquanta e la sindrome generale di adattamento

Ci sono parole che conoscono periodi di grande successo, come se fossero in grado di suggerire più di quel che dicono. Ed esiste una parola in particolare che possiede una semantica tanto chiarificatrice anche se fa parte del nostro vocabolario solo da alcuni decenni: stress. Ci si può stressare di fronte a una minaccia, a una sfida e in generale quando si ha a che fare con una situazione nuova, impegnativa e poco conosciuta. Ma lo stress può entrare nelle nostre vite anche attraverso la quotidianità, la routine, che invece di stressante, apparentemente, non dovrebbe avere nulla. Cosa si intende allora con questa parola? E chi per primo ha scoperto questo modo di fronteggiare la novità, di reagire alle avversità e a ciò che non ci piace?  Il primo scienziato a parlare di stress è stato Hans Selye, un medico austriaco che ha svolto le sue ricerche in Canada intorno alla prima metà del Novecento. E precisamente, la prima volta in cui Selye propone l’idea di stress è in una pubblicazione apparsa su Nature nel 1936 intitolata A Syndrome Produced by Diverse Nocuous Agents (“Una sindrome prodotta da diversi agenti nocivi”).  

A dire il vero, in questo lavoro non si utilizza mai la parola stress – quella arriverà qualche anno dopo, intorno agli anni cinquanta – ma si parla di sindrome generale di adattamento. Ma adattamento a cosa? E perché generale? Ciò che Selye descrive in questo studio è la reazione che i ratti hanno quando il loro “organismo è gravemente danneggiato da agenti nocivi acuti (cioè per un breve periodo di tempo) e non specifici come l’esposizione al freddo, lesioni chirurgiche […]  esercizio muscolare eccessivo o intossicazioni con dosi subletali di diversi farmaci […]”.  (Il dibattito riguardo l’utilizzo degli animali nella sperimentazione biomedica è importante perché se è vero che non possiamo ancora farne a meno è però necessario conoscere cosa può accadere nei laboratori di ricerca). In sostanza quello che si verifica sui ratti in conseguenza di questi interventi è un processo che Selye divide in tre fasi. Nella prima, quella che chiama “la fase di allarme”, lo scienziato spiega come il corpo cerchi di far fronte alla minaccia aumentando la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna e il rilascio di ormoni. In questa fase, tra le altre cose, si verificano la perdita di grasso (probabilmente è per questo che quando vediamo qualcuno notevolmente dimagrito non possiamo fare a meni di chiedergli come stia, non riuscendo a nascondere ciò che pensiamo realmente, cioè che stia male), di tono muscolare e la formazione di ulcere nello stomaco, nell’intestino tenue e nella milza. Ecco la gastrite, ma basta andare al lavoro in macchina tutti i giorni per sapere di cosa si tratta.  Durante il secondo stadio, denominato “fase di resistenza”, il corpo comincia ad adattarsi, la risposta corporea iniziale per fronteggiare la minaccia si attenua ma l’organismo continua, comunque, a contrastare la fonte di stress. Tra le altre cose, nei ratti utilizzati da Selye, la produzione di latte si arresta, cosa che può accadere anche negli umani. Selye ci dice che “se il trattamento viene continuato con dosi relativamente piccole del farmaco o con ferite relativamente lievi, gli animali svilupperanno una tale resistenza che nella parte successiva del secondo stadio l’aspetto e la funzione dei loro organi torneranno praticamente alla normalità”. Ma se si continua ad intervenire come si è fatto fino a questo momento si arriva alla terza fase, cioè a quella “di esaurimento” in cui il ratto muore. 


L’innovazione della teorizzazione di Selye sta nell’aver capito che l’organismo reagisce in maniera simile anche quando fronteggia situazioni critiche diverse tra loro, sia che si tratti di rispondere a un’aggressione fisica da parte di una persona o di un animale o di dover fare i conti con un terremoto; ecco il motivo per cui questa sindrome viene definita “generale”. E poiché la risposta dell’organismo appare come uno sforzo generale di adattamento alla situazione critica, lo stress è stato visto inizialmente come una sindrome. Da qui il nome di Sindrome generale di adattamento.  
Ci si può stressare per diversi motivi ma esistono tre macrocategorie dentro le quali far confluire tutti quegli eventi che rendono faticosa la vita: le catastrofi, i cambiamenti significativi e i fastidi quotidiani. Parlando di catastrofi, che siano naturali o no, non si fatica a capire perché i livelli di stress aumentino. Del resto, inondazioni, guerre, terremoti, colpi di stato e carestie non sono mai piaciuti a nessuno. Per quanto riguarda i cambiamenti di vita significativi la questione si fa meno evidente, perché, se non è difficile comprendere come un licenziamento o la morte di una persona cara rappresentino dei momenti difficili, è meno immediato capire che anche gli eventi felici come un matrimonio possono diventare stressanti. Eppure, per causare uno stato di stress, gli eventi non sempre devono stravolgere le nostre vite: rimanere incolonnati in tangenziale ogni mattina per andare al lavoro, un coinquilino irritante che non si fa carico delle incombenze domestiche o un collega che giorno dopo giorno ci sottovaluta, rappresentano dei buoni esempi di fastidi quotidiani che possono generare stress.


Sebbene secondo Richard Lazarus – psicologo e professore americano del secolo scorso – “lo stress deriva meno dagli eventi in quanto tali che dal modo in cui li valutiamo”, è giusto ricordare che una caratteristica messa in luce da Selye riguarda proprio il fatto che generalmente gli organismi riescono a rispondere bene agli stress acuti, temporanei, mentre vengono danneggiati da quelli cronici, cioè da accadimenti prolungati o ripetuti. Come dire, un po’ di veleno potrà anche curare ma di certo troppo uccide. Ma qual è il ruolo giocato dallo stress nelle malattie? Esiste una relazione tra stress e predisposizione ad ammalarsi? La risposta a questa domanda, grazie alla ricerca svolta negli ultimi decenni, è senza dubbio affermativa. Lo stress, infatti, quando è indesiderato, poco gestibile e percepito come eccessivo (si parla di distress), a differenza di quando invece serve a motivare la crescita personale venendo percepito come utile e positivo (si parla di eustress), è un vero e proprio vaso di Pandora.  In un articolo pubblicato nel 2005 su Nature Reviews Immunology e intitolato Stress-induced immune dysfunction: implications for health (“Disfunzione immunitaria indotta dallo stress: implicazioni per la salute”) due ricercatori del dipartimento di virologia molecolare, immunologia e genetica medica della Ohio State University ne discutono gli effetti sulla salute. Il sistema immunitario è una complessa rete costituita da cellule, mediatori chimici e tessuti biologici che ha l’obiettivo di difendere l’organismo da qualsiasi pericolo; che si tratti di un virus, di una profonda ferita o della mutazione tumorale delle cellule. E ciò che oggi sappiamo è che lo stress (il distress per essere precisi) inficia l’attività di questo sistema, riducendo di conseguenza tutte le attività poste a protezione dell’organismo.  Infatti, gli autori fin da subito scrivono che “gli stressor – cioè gli eventi o gli stimoli che generano stress – possono aumentare la suscettibilità agli agenti infettivi, influenzare la gravità delle malattie infettive, diminuire la forza delle risposte immunitarie ai vaccini, riattivare gli herpesvirus latenti e rallentare la guarigione delle ferite. […] Di conseguenza, la disregolazione immunitaria correlata allo stress potrebbe essere un meccanismo fondamentale alla base di una serie diversificata di rischi per la salute”. Capito? Mica poco.  


Come si diceva, la presenza di stress varia in base alla percezione soggettiva. I due autori riportano uno studio in cui “in un gruppo di 394 volontari sani che sono stati inoculati con uno dei cinque ceppi di virus respiratorio, la gravità sia dell’infezione respiratoria che dei sintomi clinici del raffreddore sono aumentati in una relazione dose-risposta all’aumentare dei punteggi su un indice di stress psicologico”. Questo significa che sentirsi sopraffatti dagli eventi e incapaci di gestirli ha delle conseguenze psicologiche che a loro volta vanno a influire sull’attività del sistema immunitario, limitandolo. Sia per quanto riguarda la possibilità di fronteggiare al meglio malattie virali come l’herpes labiale, il raffreddore o l’hiv, quanto di influire sulla velocità con cui si rimargina una ferita o si risolve uno stato infiammatorio. L’idea, quindi, non è che lo stress generi di per sé delle malattie ma che indebolisca la nostra capacità di reagire ad esse.  Come dire, l’entropia a volte pare una conseguenza diretta della vita, e sia che si tratti di un’infezione batterica o virale, di una ferita, di una predisposizione genetica a un certo tipo di patologia o della mutazione tumorale delle cellule, è bene avere il sistema immunitario, cioè il sistema di sorveglianza addetto al ripristino dell’equilibrio, in grado di lavorare efficientemente. Nel 2000 un gruppo di ricerca dell’University of North Carolina ha condotto uno studio su un ampio campione di persone – quasi tredicimila – con l’obiettivo di osservare se ci fosse una connessione tra rabbia e salute cardiovascolare. I ricercatori hanno seguito le persone durante cinque anni scoprendo che “tra gli individui normotesi (cioè tra coloro che hanno una pressione arteriosa normale), un alto livello di tratto comportamentale rabbioso è stato associato a un rischio di malattie coronariche leggermente superiore al doppio e a un rischio di eventi gravi vicino al triplo rispetto a chi presentava un basso livello di rabbia”.  In pratica, coloro che hanno un carattere rabbioso hanno quasi il triplo di possibilità di subire un attacco cardiaco. Auguri.


Ma quali sono gli strumenti utili per fronteggiare lo stress? In sostanza, cosa è possibile fare per tenere a bada le conseguenze che può generare?  Un ruolo decisivo viene giocato dal controllo percepito, cioè dalla sensazione di influenzare e gestire gli eventi della propria vita. Dagli studi, infatti, emerge che quando non si ha questa possibilità i livelli degli ormoni dello stress aumentano mentre si ha una caduta delle risposte immunitarie. Incredibile, vero? Questo tipo di risposta alle situazioni sulle quali non si ha agency, sulle quali cioè non si può esercitare un controllo cosciente, è stato confermato sia dagli studi che impiegano animali che da quelli con campioni umani.  Tornando ai ratti – per i quali come vedremo si ha spesso poca pietà – è stato visto che se due ricevono delle scosse elettriche ma solo uno può interromperle iniziando a fare girare la ruota, in quest’ultimo non si sviluppano ulcere e abbassamento immunitario, cosa che accade invece in quello senza agency, cioè senza la possibilità di fermare le scariche elettriche. “Similmente” è stato osservato che i dipendenti che possono decidere la disposizione dei mobili e i momenti di pausa nell’ambiente lavorativo percepiscono un minore stress, proprio perché hanno una maggiore agency.


In uno studio inglese del 1998 eseguito da ricercatori del dipartimento di epidemiologia e salute pubblica della University College London Medical School, è emerso che il basso senso di controllo sul luogo di lavoro aumentava il rischio di cardiopatie tra i dipendenti pubblici inglesi. Lo studio ha preso in esame diecimila persone e ha concluso che “il basso senso di controllo e le condizioni di alta richiesta lavorativa e basso guadagno influenzano lo sviluppo di malattie cardiache tra uomini e donne che lavorano negli uffici governativi britannici”.  Chiaramente, per evitare di campare poco e male non è sufficiente la percezione di essere in controllo della propria vita. Ma dando per scontata la possibilità di soddisfare i bisogni primari legati alle necessità fisiologiche e al senso di sicurezza, grazie alla pratica di un esercizio fisico regolare, alla presenza di una rete di supporto sociale e all’impiego di tecniche di rilassamento, le probabilità di riuscire a difendersi dai periodi di vita stressanti aumentano notevolmente.
 

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