Il sole in una bottiglia
The sun in a bottle (il Sole in una bottiglia). E’ il sogno dell’umanità da quando Hans Bethe, forse il più grande fisico nucleare del ’900, risolse nel 1938 il dilemma dell’età: quanto è lunga la vita del Sole? Tutti i processi energetici conosciuti dall’uomo, chimici e fisici, giustificavano una durata al massimo di qualche decina di milioni di anni. Per Sir William Thomson, barone di Kelvin Largs per meriti scientifici, la constatazione era sufficiente a mandare al tappeto la più importante teoria scientifica del secolo XIX: il darwinismo. Come faceva Charles Darwin a postulare l’evoluzione delle specie in una durata di milioni e milioni di anni se tutta la fisica e la chimica dell’epoca consentivano una durata di vita del Sole, al massimo, di soli pochi milioni di anni? Le specie animali risultavano più vecchie dell’età del Sole, della fonte di energia che ne consentiva l’esistenza. Assurdo, concludeva Lord Kelvin. Darwin era in errore. E l’onesto naturalista e biologo britannico, infatti, vacillò sui calcoli di Sir Thomson: avvertì che la sua teoria era scossa da un attacco non banale. L’argomento di Lord Kelvin conteneva una conseguenza collaterale: perfino il Sole sottostava a una regola di scarsità. Esso, in base alle conoscenze chimiche, risultava dotato di un ammontare fisso di energia in via di esaurimento. La sua vita naturale aveva una durata limitata e un limitato potere energetico. Impossibile produrne di più. Era la proto versione di quel principio di scarsità che due secoli dopo sarà posto a base delle filosofie della sostenibilità e dei dogmi autolimitanti di ogni cultura ecologista. Ma Hans Bethe, geniale collaboratore di Enrico Fermi e pivot della generazione straordinaria di fisici tedeschi emigrati negli Usa alle avvisaglie del nazismo, sciolse il dilemma dell’età e risarcì Sir Charles Darwin svelando la fonte di generazione di energia che, non solo, allungava la vita del Sole da milioni a miliardi di anni ma sbriciolava, al tempo stesso, le basi del principio di scarsità di Lord Kelvin: la Natura conteneva processi di produzione energetica, potenzialmente, illimitati. Altro che ammontare fisso di energia come lamentava Lord Kelvin. L’età del Sole era determinata, scoprì Bethe, da processi energetici nucleari. Non chimici. Il combustibile stellare non era, come credeva Sir Thomson, l’energia residua contenuta negli elementi chimici che formavano il Sole. Ma l’enorme bacino di potere energetico contenuto nel nucleo dell’atomo. E, in particolare, nei processi di reazione che interessavano l’elemento di cui il Sole è più ricco: l’idrogeno. Avveniva qualcosa di sorprendente. Alle inaudite temperature, densità e pressione dell’interno del Sole, i nuclei di idrogeno venivano forzati ad avvicinarsi tra loro (a condizioni normali, essendo dotati della stessa carica elettrica, si sarebbero invece respinti e allontanati) fino a fondersi insieme creando un nuovo elemento, l’elio (la seconda cosa di cui è più ricco il Sole). La somma, però, non faceva il totale. Il peso (il valore di massa) dell’elio risultava inferiore al peso dei quattro nuclei di idrogeno di cui risultava costituito. Dove era finita l’energia mancante? A irraggiare il sistema solare. In quantità straordinaria. E dalla durata enorme. Il combustibile nucleare, l’idrogeno, che alimentava il motore nucleare della stella era presente in quantità tale da garantire riserve di miliardi di anni. Di sicuro Charles Darwin, nella tomba, avrà avuto una scossa di sollievo.
Nacque così, dal dilemma dell’età del Sole, la fisica nucleare e stellare e il sogno del suo possibile sfruttamento sulla Terra per creare energia illimitata. Del resto l’idrogeno, il combustibile del Sole, non era forse l’elemento più diffuso anche da noi? Nelle immense quantità degli oceani, ad esempio. Hans Bethe aveva svelato il segreto dell’atomo. Ormai, dopo Rutherford, Einstein e Bohr, la verità sull’energia era balzata agli occhi. Da millenni gli uomini liberavano energia utile per loro sfruttando l’energia contenuta nella periferia dell’atomo. Attraverso l’energia chimica della combustione, l’uomo aveva imparato a sfruttare l’energia contenuta nei territori periferici dell’atomo: là dove è il regno degli elettroni, la nuvola di particelle che circonda il nucleo dell’atomo, il regno delle particelle pesanti dei protoni e dei neutroni. Ma alla periferia dell’atomo l’energia in gioco è residuale e limitata. L’energia dell’atomo, infatti, serve nel nucleo. Lì deve essere enorme. Tale e tanta da vincere la fortissima forza di repulsione tra i protoni che, avendo tra loro carica uguale, devono per regola respingersi e volare via. Per questo, in un atomo, la quasi totalità dell’energia è nel nucleo e non nella periferia, il regno degli elettroni e della chimica. E, nel nucleo, vi è anche la quasi totalità della massa, del peso dell’atomo. E la massa, aveva detto Einstein con E=mc2, è energia. Insomma le reazioni nucleari che avvengono nei nuclei dell’atomo sono obbligatoriamente e immensamente più energetiche delle reazioni chimiche che coinvolgono gli elettroni e la periferia dell’atomo. E il Sole, dopo Bethe, insegna a capire come avviene il più energetico e illimitato dei processi nucleari: la fusione di quattro nuclei leggeri di idrogeno, l’elemento più diffuso in natura.
Albert Einstein, padre della teoria della relatività
Di qui, dopo Hans Bethe, la suggestione e il sogno: copiare il Sole. Sfruttando l’enorme energia racchiusa nei nuclei dell’atomo. Sinora, però, il sogno è riuscito solo in parte. Le potenzialità energetiche del nucleo dell’atomo sono state ingabbiate solo in una versione particolare di ingegneria energetica: quella della fissione nucleare, la sorella “povera” della fusione. Essa sfrutta il potere energetico liberato dalla rottura di nuclei di elementi pesanti della scala atomica, l’uranio in primis, che spezzati danno vita a elementi più leggeri ma liberano, anche, energia di legame che l’uomo converte in elettricità. Non è quello che avviene nel Sole. Che è ben più potente. Fondere dei nuclei atomici, la reazione scoperta da Bethe nelle stelle, implica come abbiamo visto, molta più energia di legame di quanto non ne liberi la fissione di nuclei pesanti realizzata dall’uomo nelle centrali atomiche. Per costringere quattro nuclei di idrogeno ad avvicinarsi e a fondersi occorre un’energia enorme, sotto forma di temperatura, e pressione e densità inaudite. Quindi l’energia in gioco, in un processo di fusione nucleare, è enormemente maggiore che nella fissione nucleare. L’energia disponibile è, dunque, vicina all’illimitatezza. In più, coinvolgendo l’elemento più leggero della tavola atomica, il primo della serie, l’idrogeno e i suoi isotopi, non ci possono essere, come scorie, sottoprodotti dell’idrogeno. Laddove la fissione di elementi pesanti (uranio o torio) produce inevitabilmente sottoprodotti (elementi più leggeri e che precedono l’uranio nella scala atomica): le cosiddette scorie.
Hans Bethe, che nel 1938 individuò un ciclo di reazioni termonucleari all’origine dell’energia del sole
Ma perché, la fissione nucleare si è realizzata e ha mantenuto le sue promesse civili e la fusione no? Perché è così difficile il sogno della fusione: realizzare sulla Terra i processi nucleari del Sole in una… bottiglia? Cioè, riuscire a ingabbiare e sfruttare le energie formidabili della fusione in un manufatto umano: una centrale di generazione elettrica? La possibilità è studiata sin dagli anni 30, dalla scoperta di Bethe in poi. Quello della fusione termonucleare è, in realtà, una storia che ha del mitico: un’epopea di vicende, conflitti, avventure romanzate di scienziati, fisici, scuole di pensiero, invenzioni tecnologiche, forse, sconosciute al grande pubblico ma che meriterebbe di essere conosciuta. Una storia parallela e collaterale a quella della fissione nucleare. Ma quasi come figlia di un Dio minore. Forse perché segnata troppo dal peso del suo uso bellico. La relativa semplicità ingegneristica della fissione nucleare ha consentito di passare rapidamente, con la formidabile iniziativa di Atom for Peace, alla versione civile, pacifica e propulsiva di essa. La traduzione civile della fusione è di ben maggiore complessità. Ma la comunità scientifica non ha mai abbandonato il sogno. E oggi, dopo quasi un secolo di tentativi e di esperimenti, si parla di fattibilità. E, anche, di ragioni pratiche. Segnata dal marchio d’origine dell’uso bellico, le terribili bombe H (H è il simbolo dell’idrogeno) russe e americane, la ricerca sulla fusione ha, oggi, la sua rivincita civile, una ragione pratica, onorevole e dignitosa, che spiega il grande impegno sul tema: nei depositi russi e americani di testate belliche all’idrogeno, sono stoccate enormi quantità di combustibile che, se si riuscisse a ingegnerizzare il processo controllato e pacifico di fusione nucleare, si trasformerebbero in ricchezza invece che minaccia. Negli ultimi tempi il dibattito sulla fusione ha conosciuto un revival. Solo negli ultimi otto mesi due annunci: quello di ottobre 2014, un esperimento di fusione al Livermore National Laboratory in California, che reclamizzava risultati mai raggiunti nei guadagni energetici degli esperimenti; quello di qualche giorno fa del Corriere della Sera che, con Anna Meldolesi, ha riferito di una venture privata, la Tri Alpha Energy, che sarebbe riuscita nella straordinaria impresa di stabilizzare la reazione di fusione per un tempo di 5 millisecondi. Finora ci si era fermati prima: 0,3 millisecondi. Curioso: tra i sostenitori e finanziatori della Tri Alpha c’è Paul Allen il cofondatore di Microsoft. Il fondatore, Bill Gates, invece è fortemente impegnato nel sostegno all’energia nucleare finanziando un progetto innovativo di centrale nucleare a fissione. Microsoft ha lo sguardo lungo, non c’è che dire. Ma si tratta davvero di notizie spettacolari? Il dubbio c’è. Il vero problema della fusione non è più la dimostrazione scientifica della premessa della sua possibilità pratica. E’ ormai assodato che, con le macchine sperimentali attive – oltre 200, ne abbiamo una anche noi italiani a Frascati, tra tokamaks (tecnologia di origine russa a confinamento magnetico), macchine Usa (come quella del National Ignition Facility) a confinamento inerziale, il Jet (Joint European Fusion) a Culham in Gran Bretagna – si possono raggiungere lampi di energia da fusione, per pochi secondi, efficienti: in cui cioè l’energia ottenuta in quei pochi secondi è maggiore di quella immessa. Ma, oggi, non è più questo il problema. Le suddette macchine sperimentali a diversa tecnologia hanno validato che il processo di fusione controllata e non distruttiva è possibile. La fisica della reazione di fusione sembra reggere le sue promesse: raggiungere temperature enormi (decine di milioni di gradi) per produrre processi di fusione con acquisto di energia, lampi che restituiscono energia in quantità superiore a quella impiegata per innescare la reazione. Per qualche frazione di secondo… Lo scoglio vero è un altro. Per dimostrare la sfruttabilità del processo di fusione non basta il guadagno di energia in pochi millisecondi. Cioè il lampo. Quello che serve è la vera svolta. Che i fisici chiamano ignition: il punto in cui la reazione di fusione diventa self-sustaining, cioè produce in continuità più energia di quanto si immetta dall’esterno. E questo è ancora da raggiungere. Teoricamente la fisica prova che è possibile. Praticamente ci sono enormi avanzamenti da realizzare. Mantenere la reazione di fusione efficiente (cioè con energia ottenuta superiore a quella immessa) per un prolungato periodo di tempo e non per frazioni di secondo, è ancora una frontiera da raggiungere. Il problema è riuscire non tanto a produrre quanto a confinare e mantenere il combustibile della fusione (i protoni di idrogeno fusi in plasma ad altissima temperatura) per un ragionevole lasso di tempo. Per ragioni di fisica del plasma queste due ovvie condizioni di fattibilità del processo di fusione non solo sono di complicatissima realizzazione ma addirittura, in linea di principio, in contraddizione tra loro. La temperatura a cui occorre portare il plasma (decine e decine di milioni di gradi) per costringere quattro nuclei di idrogeno a fondersi tra loro, è enormemente superiore a quella del centro del Sole. Dove l’enorme pressione esistente consente di realizzare la fusione a temperature inferiori. In laboratori terrestri, invece, la pressione non c’è. E dobbiamo compensarne la mancanza con temperature più alte. Ma di molto: centinaia di milioni di gradi in luogo di qualche decina sul Sole. Il problema non è, a quanto pare, raggiungere queste temperature. E’ che a temperature così alte il plasma si disperde e perde di intensità vanificando il processo. Occorre, perciò, riuscire a tenerlo stabile, confinato, denso. Trovare qualcosa sulla terra, la bottiglia, che sostituisca quello che nel sole fanno la pressione e la gravità.
[**Video_box_2**]Come? Non esistono, sulla Terra, materiali che possano svolgere tale funzione: niente che conosciamo reggerebbe a temperature di milioni di gradi. E allora? Le macchine sperimentali che i media reclamizzano hanno realizzato idee creative per risolvere il problema: confinare il plasma attraverso tecnologie di campi magnetici o tecnologie laser. Ma, sinora, anche per le dimensioni ridotte di tali macchine, non si è riusciti ad andare oltre le premesse di fuggevoli lampi di energia per piccolissime frazioni di secondo. Per andare oltre occorre un grande impianto. Non una piccola macchina sperimentale da laboratorio. Il vero dilemma, insomma, è di ingegneria. Non tanto di fisica teorica. Per questo, nonostante la spettacolarità degli annunci dei giornali e la reclamizzazione dei risultati delle macchine sperimentali, la vera sfida sulla fusione è quella che si sta realizzando in Europa, a pochi passi da noi: a Cadarache, nel sud francese, con la macchina Iter (International Thermonuclear Experimental Reactor), un reattore di fusione deuterio-trizio, isotopi dell’idrogeno, a confinamento magnetico (tokamak). La localizzazione non inganni: non si tratta, come spesso si insinua, della solita guerra tecnologica tra americani ed europei. Obama, di recente, ha persino mostrato di preferire la macchina Iter alle stesse macchine sperimentali americane a confinamento inerziale. Iter è, infatti, un consorzio internazionale dell’intero mondo avanzato: Unione europea, Russia, Cina, Giappone, Usa, India, Corea del sud. Una sorta di Atom for peace 3.0, l’avventura nucleare e tecnologica più avanzata del Terzo millennio. Più ancora della generazione elettrica futura da fusione, le tecnologie sperimentali di Iter fertilizzeranno campi di innovazioni impensabili per la tecnologia del nuovo secolo: la fisica dei plasmi, la criogenia, i nuovi materiali, la superconduttività, le tecnologie del vuoto. Un passo avanti immenso. Ovviamente Iter, come ogni grande progetto, registra puntualmente aumenti di costi, ritardi nelle milestone realizzative e rinvii della data di realizzazione della macchina. Ma niente che giustifichi la campagna, cui alcuni media si prestano talvolta, alla delegittimazione di questo grande impianto in costruzione in nome di altre realizzazioni tecnologiche in altre parti del mondo: sull’ingegneria della fusione Iter resta più avanti di tutti. E oggi, che sono avviati i lavori per l’assemblaggio effettivo del reattore, l’esperimento di Iter è, forse, vicino al punto di non ritorno (quello in cui il costo della sua cancellazione sarebbe superiore a ogni altro ipotetico vantaggio). Perché Iter resta la macchina sperimentale di gran lunga più importante di tutte quelle su cui i media fanno spesso annunci spettacolari? Perché Iter ha un obiettivo e un progetto ingegneristico che nessuna altra macchina sperimentale esistente ha: produrre 500 MW per una durata di tempo di 60 minuti. Ovviamente impiegando meno energia di quanta ottenuta nei 60 minuti. Vale a dire, Iter deve rispondere alle due vere domande, ancora aperte, sulla fusione: il self-sustaining della reazione (60 minuti) e la confinabilità del plasma. Dopo di che uno potrà dire: ci siamo. Gli altri esperimenti, quelli che i giornali reclamizzano sono solo marce di avvicinamento.
Cattivi scienziati