La Cina bara sulle emissioni. Il summit sul clima è sempre più inutile
A fine novembre inizierà a Parigi la Cop21, la conferenza sul clima organizzata dalle Nazioni Unite a cui parteciperanno oltre 190 paesi da tutto il mondo per trovare un accordo sulla limitazione delle emissioni di gas serra con il fine di rallentare il riscaldamento globale e fermare i cambiamenti climatici.
A fine novembre inizierà a Parigi la Cop21, la conferenza sul clima organizzata dalle Nazioni Unite a cui parteciperanno oltre 190 paesi da tutto il mondo per trovare un accordo sulla limitazione delle emissioni di gas serra con il fine di rallentare il riscaldamento globale e fermare i cambiamenti climatici. Programma talmente vasto che difficilmente verrà attuato, come già successo dopo tutte le precedenti conferenze: l’unica certezza è che ci saranno molte promesse che verranno rese vincolanti, ma al prossimo summit, forse. Come ha spiegato proprio al Foglio qualche giorno fa Philippe Verdier, storico meteorologo della tv francese licenziato dopo la pubblicazione di un libro scettico sulla teoria del global warming, quando si parla di clima si parla molto di politica e poco di scienza. E alla politica fa gioco avere da una parte allarmi catastrofisti che preoccupano la gente, e dall’altra dichiarare di essere al lavoro per trovare soluzioni definitive. E’ questo il gioco che ha fatto il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, quando qualche settimana fa ha annunciato – per il secondo anno di fila – un accordo con la Cina sul taglio delle emissioni inquinanti da parte di Pechino da qui al 2030 (quando Obama non sarà più presidente da un pezzo). “Svolta verde”, “impegno storico”: così la stampa schierata ha salutato le promesse di Xi Jinping a fine settembre. Un’ottima base per presentarsi pieni di iniziativa a Parigi, ai colloqui che dovrebbero salvare il mondo da morte certa. Peccato che secondo una recente ricerca citata dal New York Times, la Cina stia già barando sui numeri delle emissioni di gas serra: Pechino infatti starebbe bruciando il 17 per cento in più di carbone all’anno rispetto a quanto dichiarato. Date le dimensioni del paese, la correzione ha un peso enorme: circa un miliardo di tonnellate in più secondo i primi calcoli. Si pensi che quel più 17 per cento vale da solo più di quanto tutta l’economia tedesca emette in un anno.
I dati, apparsi di recente in un annuario di statistiche energetiche pubblicato senza fanfare da un’agenzia cinese, mostrano che il consumo di carbone è stato sottovalutato addirittura dal 2000, e in particolare negli ultimi anni. Le revisioni sono basate su un censimento dell’economia del 2013 che ha evidenziato le lacune nella raccolta dei dati, soprattutto quelli provenienti da piccole aziende e fabbriche. Molta più CO2 nell’atmosfera, dunque, e molto più inquinamento prodotto.
Una scoperta che rischia di far partire subito azzoppata la conferenza sul clima di Parigi a fine novembre. Che sia la volta buona in cui a qualcuno verrà il sospetto che la lotta ai cambiamenti climatici (come se nella storia del nostro pianeta il clima non fosse mai mutato) non si debba fare a colpi di emissioni ridotte? Sempre sul New York Times ieri il direttore del Center for Urban Science and Progress alla New York University, Steven E. Koonin, spiegava numeri alla mano che se anche si riuscisse a ridurre la produzione di gas serra del 20 per cento, si sposterebbe il problema (ipotetico, al momento, dato che tutte le previsoni catastrofihe degli anni passati ancora non si sono verificate, anzi) di appena dieci anni. L’Antartide che cresce in estensione e volume – di cui abbiamo dato conto ieri su queste pagine – conferma che la scienza sul clima non è ancora giunta a certezze definitive. Meglio spendere soldi, energie e idee per l’adattamento a questi cambiamenti, e non per una lotta alle sue supposte cause e i cui risultati sono e restano incerti.
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