Brutto clima a Parigi
Che cosa pensino davvero gli ambientalisti – o sedicenti tali, il che non cambia la sostanza – del summit sul clima di Parigi che si apre oggi con quasi 150 capi di stato presenti e circa 190 paesi del mondo rappresentati da migliaia di delegati, si è visto ieri: nonostante il divieto di manifestare, centinaia di persone sono scese per le strade della capitale francese cercando il contatto con le forze dell’ordine. Obiettivo raggiunto, con conseguenti scontri, arresti, danni alla città e persino il lancio di fiori e candele lasciate per terra giorni fa per ricordare le vittime delle stragi jihadiste del 13 novembre.
Con queste premesse si aprono oggi i lavori della Cop 21, la Conferenza delle Nazioni Unite guidata dall’Ipcc – il panel di esperti che studia i cambiamenti climatici – che ha l’obiettivo di trovare un nuovo accordo globale per la riduzione dei gas serra prodotti dalle attività umane con il dichiarato scopo di fermare l’aumento delle temperature globali che – sempre secondo gli esperti – di questo passo aumenterebbero di 2 gradi entro il 2050. Qualora di trovasse l’accordo, sarebbe comunque abbastanza inutile, a detta delle stesse Nazioni Unite: se messo in pratica da tutti (sarebbe vincolante dal 2020, non prima) ridurrebbe l’aumento delle temperature di solo 0,05 gradi.
Le due settimane di discussioni sul clima a Parigi porteranno quasi sicuramente a un accordo. A differenza degli ultimi summit di questo tipo, i leader mondiali non possono permettersi un altro fallimento: è vero che siamo probabilmente alla quinta “ultima occasione” negli ultimi dieci anni, ma il peso mediatico e simbolico di questi talks climatici non è mai stato così significativo. Da una parte arriviamo da mesi di allarmi catastrofisti ben orchestrati sulla salute del nostro pianeta, dall’altra si è voluto investire l’incontro francese del pesante fardello di risposta dell’occidente ai terroristi islamici. Sfida improbabile, ma perfettamente in linea con la natura dell’ambientalismo contemporaneo, divenuto ormai religione a tutti gli effetti. Chissà se Obama ripeterebbe oggi quanto detto a febbraio di quest'anno, e cioè che la lotta ai cambiamenti climatici è più urgente di quella al terrorismo.
[**Video_box_2**]Bisogna registrare una nuova evoluzione di linguaggio, questa volta con effetti positivi: dopo essere passati dal “riscaldamento globale” al più cauto e vago “cambiamenti climatici”, finalmente si fanno spazio tra le soluzioni adottabili le parole “adattamento” e “innovazione”. Il clima sul nostro pianeta è sempre cambiato, e non per colpa delle attività umane (nel medioevo faceva molto più caldo di oggi, eppure il mondo c’è ancora): lo sta facendo anche in questi anni, e pensare di fermarlo riducendo un po’ le emissioni di CO2 è utopico, oltre che ridicolo, come lascia intendere anche il New York Times oggi.
Come spesso succede quando si parla di cambiamenti climatici, la scienza fa solo da sfondo al discorso ideologico. Dati grossolani spacciati per definitivi, previsioni fatte al computer date per certe, obiettivi a lungo periodo basati su speculazioni (oggi il Wall Street Journal spiega bene che la storia dell’aumento di 2 gradi entro il 2100 non ha grosse basi scientifiche).
Da oggi fino alla fine della Conferenza assisteremo a decine di annunci, promesse irrealizzabili, e lezioni di cinica realpolitik (come quella che arriva dalla Cina, grande produttrice di emissioni inquinanti e improvvisamente green). Alla fine, come scrivevano Matt Ridley e Benny Peiser sul Wall Street Journal sabato, un accordo sufficientemente vago e non vincolante per permettere a tutti di cantare vittoria e avere il tempo di modificarlo da qui al 2020, in attesa di vedere se e quanto le temperature globali cambieranno.
Cattivi scienziati