Certe trasformazioni dovremmo provare a governarle, piuttosto che assecondarle
Come sarebbe un mondo nel quale la procreazione fosse resa del tutto artificiale e l’allevamento dei bambini prescindesse del tutto dalla famiglia naturale? Cerchiamo d’essere seri: ma chi ne ha la più pallida idea? Le trasformazioni che stiamo vivendo sono di portata talmente vasta, così rapide e a tal punto prive di precedenti che azzardare previsioni sarebbe più che imprudente – sarebbe un atto imperdonabile di superbia. Ma allora, se non non possiamo prevederne l’effetto, con quali criteri dovremmo affrontare queste trasformazioni? E, in particolare, perché mai dovremmo resistere alla piena artificializzazione della procreazione, se la tecnologia lo rende possibile e gli individui lo desiderano? Il criterio col quale affrontare il mutamento, a mio avviso, dovrebbe essere lo stesso che ci spinge a evitare previsioni, ossia la prudenza. E la prudenza è anche la ragione per la quale procreazione e allevamento non dovrebbero (sempre a mio modesto avviso) essere sradicati dal loro alveo naturale e tradizionale. Chi sostiene che la rivoluzione antropologica in atto debba essere accettata, e anzi incentivata, non lo fa quasi mai a caso, ma – consapevolmente o meno – si muove all’interno di un sistema di pensiero ben preciso. Nei dibattiti di queste ultime settimane ne abbiamo avuto innumerevoli dimostrazioni. Dentro questo sistema di pensiero troviamo almeno due valutazioni, collegate l’una all’altra. Il primo giudizio è sul nostro mondo attuale, ed è un giudizio fortemente negativo: il nostro mondo non corrisponde al mondo perfetto che vorremmo. Il secondo è sul cambiamento, e – com’è ovvio, dato che lo status quo ci appare insopportabile – è invece positivo a prescindere. Come corollario di questo secondo giudizio, la singola novità può esser considerata parte d’un processo di trasformazione storica al contempo fatale e benigno – e al quale sarebbe quindi doppiamente illogico opporsi. Questo sistema di pensiero mi lascia a dir poco perplesso. In primo luogo perché la nostra civiltà, per quanto sia senz’altro largamente imperfetta, non mi pare affatto disprezzabile, soprattutto se la paragoniamo alle alternative passate e presenti. Poi perché si tratta d’una civiltà oltremodo fragile – e più fragile ancora proprio in quella componente che i suoi critici più vorrebbero vedere sviluppata, ossia nella libertà individuale. Infine, e di conseguenza, perché il mutamento storico non ha una logica, e tantomeno una logica benigna: cambiare non significa sempre e necessariamente cambiare in meglio, e il progresso tecnologico non ha niente a che vedere col progresso morale.
Visto che il distacco dei processi di procreazione dal loro alveo naturale rappresenta una rivoluzione; visto che non possiamo prevederne gli effetti; visto che viviamo in una civiltà che è riuscita a garantirci una libertà senza precedenti, ma che rimane assai più fragile e reversibile di quanto non sembriamo pensare – per tutte queste ragioni, prudenza vorrebbe che certe trasformazioni provassimo a governarle, piuttosto che assecondarle.
Giovanni Orsina è docente di Storia contemporanea all'Università Luiss “Guido Carli”
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