La lotta dura (e senza perché) al glifosato contagia il governo

Luciano Capone

Qualcuno dovrà spiegare perché il principio di precauzione sollevato dalle autorità per l'erbicida non vale per cose altrettanto “probabilmente cancerogene” come carni rosse e fritture

Milano. Quando l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dichiarò le carni lavorate “cancerogene” e le carni rosse “probabilmente cancerogene”, gli italiani andarono nel panico. Ma le istituzioni li rassicurarono: “I titoli dei giornali sono eccessivi, non dobbiamo creare allarmismo”, diceva il ministro della Salute Beatrice Lorenzin. Allo stesso modo il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina: “Da noi controlli rigidi in tutta la filiera, non bisogna cadere in allarmismi”. A stemperare il clima di ansietà c’erano anche Coldiretti (“I falsi allarmi lanciati sulla carne mettono a rischio posti di lavoro”) e il fondatore di Slow Food Carlo Petrini (“E’ la quantità a fare la differenza, lanciare allarmismi un tanto al chilo è insensato oltre che stupido”).

 

Tutti questi attori, pubblici e privati, si comportano all’esatto opposto ora che nella lista dell’Oms è stato inserito il glifosato. Si tratta di un erbicida, il più diffuso al mondo, che da qualche mese lo Iarc (l’agenzia dell’Oms che si occupa di ricerca sul cancro) ha classificato come “probabilmente cancerogeno”, alla pari delle carni rosse (gruppo 2A) di cui tutti dicevano di non preoccuparsi e un gradino sotto gli agenti “cancerogeni” come gli insaccati (gruppo 1). L’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa), su richiesta della Commissione europea, ha fatto una valutazione ancora più approfondita, giungendo a conclusioni opposte: “E’ improbabile che il glifosato sia cancerogeno”. Ma ha comunque proposto “nuovi livelli di sicurezza che renderanno più severo il controllo dei residui di glifosato negli alimenti”. In pratica l’Efsa ha ribadito ciò che aveva detto Petrini a proposito del consumo di carne rossa (“è la quantità a fare la differenza”), indicando nuove soglie di sicurezza tossicologica sia per gli operatori che per i consumatori. Allarme rientrato? Macchè. Siccome a giugno scade l’autorizzazione per l’uso del diserbante e Bruxelles sta discutendone in questi giorni il rinnovo, è partita la campagna contro. Petrini e Slow Food hanno lanciato un appello per bandire il glifosato dall’Europa: “Bisognerà decidere se il futuro del cibo è in mano all’industria chimica o a una politica che abbia a cuore la salute dei consumatori”. La Coldiretti, oltre al divieto di uso in Europa, vuole respingere anche l’importazione di tutti i prodotti venuti a contatto col glifosato. Un ribaltamento totale rispetto alla posizione sulla carne rossa, che pure è nella stessa categoria del glifosato, quando sia Coldiretti che Slow Food parlavano di “stupidi” e “falsi” allarmismi.

 

Sul fronte del “no” si è schierato a sorpresa anche il governo: “L’Italia darà parere negativo sul glifosato al comitato fitofarmaci a Bruxelles”, ha twittato il ministro dell’Agricoltura Martina. E il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti: “No al fitofarmaco glifosato. Proteggere noi stessi, la nostra terra è una priorità per l’Italia”. Sulla stessa linea il ministro della Salute Lorenzin. L’Italia si è così aggiunta alla Francia, l’unico paese contrario alla proroga, facendo rimandare a maggio la decisione sul rinnovo dell’autorizzazione attesa per martedì scorso. Il blocco del glifosato, prodotto simbolo delle battaglie degli ambientalisti perché inventato dalla multinazionale americana Monsanto (anche se il brevetto è scaduto da ormai 15 anni), può avere ripercussioni economiche notevoli: è l’erbicida più diffuso, che ha sostituito il diserbo manuale e meccanico, proprio per la sua efficacia, economicità e per il ridotto impatto ambientale (si degrada facilmente e ha una bassa penetrazione nel terreno). Di fronte a ipotetici rischi per la salute il governo può decidere anche di estendere al massimo il principio di precauzione, prescindendo persino dal parere dell’Efsa, e vietare il glifosato. Ma qualcuno dovrà spiegare perché lo stesso principio non vale per cose altrettanto “probabilmente cancerogene” come carni rosse e fritture. O, a maggior ragione, per quelle “certamente cancerogene” come insaccati, alcol e tabacco.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali