Forza boschi
Nemmeno avevo compiuto 18 anni (era il 1984) che già il futuro sembrava in pericolo. C’erano le piogge acide e l’incubo nucleare, la crescita demografica e naturalmente la fine del petrolio. E c’era anche la deforestazione. Tuttavia, oggi a proposito di foreste e rimanendo in Italia è utile leggere i dati dell’ultimo annuario dell’agricoltura italiana (2014) stilato dal Crea. E’ importante ripassare questi dati perché spesso – e forse per via del suddetto immaginario apocalittico – mi è capitato di ascoltare diversi cittadini preoccupati per la sorte del nostro patrimonio boschivo. Alcuni sono convinti che sia in pericolo. Invece i dati ci dicono che la superficie boschiva è cresciuta. Si è passati da 4 milioni di ettari, negli anni Trenta agli 11 milioni di adesso (allora la legna in gran parte serviva per le stufe, il gas in Italia ha raggiunto una buona parte della popolazione a metà degli anni Settanta).
Il report completo elaborato dal Crea lo trovate qui
Per essere più precisi sui numeri. Solo 1.700 ha/anno sono dovuti a imboschimento a opera dell’uomo, il resto è il risultato dell’espansione naturale del bosco. Ora, da una parte si dovrebbe essere contenti. Qualcuno di fede strettamente ecologista potrebbe vedere un tangibile segno della natura che finalmente riprende il suo territorio, basti pensare ad alcuni animali simbolici, come il lupo. Un tempo quasi scomparso. Negli anni Settanta se ne contavano solo 100, ora abbiamo superato il migliaio – e senza contare specie come i cinghiali che in alcune regioni stanno diventando un problema, anche se in quel caso ci vorrebbe un intero saggio per spiegare quali sono state le cause. Tuttavia la crescita delle superficie boschiva va analizzata per bene. Ci sono varie ragioni – e non bisogna dimenticare che nel passato ne abbiamo distrutti di boschi – ma di sicuro c’entra l’agricoltura. Oggi abbiamo bisogno di meno terra per produrre, e non sono tanti i candidati alla pastorizia e alla pratica della transumanza, quindi succede che il bosco si è impossessato dei prati d’altura – dove una volta pascolavano vacche e capre. Anche le malghe e i terrazzamenti sono diminuiti. Quindi se sulle coste si assiste a questo increscioso fenomeno della cementificazione – i dati Ispra ci dicono che negli anni Cinquanta il consumo del suolo era di 2,7 per cento all’anno, oggi siamo al 6,9 – nelle zone interne il bosco si allarga. E diventa più impervio, in alcuni tratti impenetrabile. Poi magari i rami si seccano ed è più facile che si sviluppi un incendio. Altri dati interessanti: nonostante l’aumento della superficie forestale, l’utilizzo annuale delle biomasse rimane sotto la media europea (30 per cento contro il 60). Crescono poi le importazioni di legname grezzo a uso strutturale ma in particolare a uso energetico. Facciamo infine ottime cucine e arredi ma il legno non è a chilometro zero, per la maggior parte arriva da Francia, Slovenia, Austria, Croazia e Svizzera.
Il fatto è che non basta gioire per l’aumento della superficie boschiva. I richiami alla natura spesso per una sorta di malinteso culturale, si sa, sono difficili da maneggiare, e poi non è piacevole essere lasciati in balìa della natura. Più prosaicamente anche i boschi e le foreste andrebbero gestite, in fondo sono beni rinnovabili, gli alberi si possono piantare, lasciarli crescere così che facciano il loro lavoro, poi tagliati e poi ripiantati. Pensare che va bene così, basta il verde attorno a noi si espanda, perché tanto l’uomo è carogna e cattivo, insomma un pensiero del genere è un lusso che non possiamo permetterci più di avere. Ma ci vuole una cultura forestale specifica, razionale e pratica che misuri costi e benefici per la comunità, e non una generica cultura ambientale che valorizza la natura ma rischia di ingabbiare l’uomo nella foresta.
cattivi scienziati
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