Perché non bisogna fidarsi troppo delle ricerche psicologiche che leggiamo su blog e giornali

Simonetta Sciandivasci
Uno studio svela trucchi e imprecisioni dei laboratori che analizzano i comportamenti dei bambini e poi li vendono ai media come scoperte definitive.

Nell'olimpo laico di molti di noi la psicologia occupa una posizione ragguardevole, tra le divinità con portafoglio. Sarà, allora, complicato che il lavoro di David Peterson ci faccia smettere di diagnosticare le tare comportamentali del nostro prossimo ricorrendo a ricerche (nella maggior parte dei casi americane) di cui troviamo notizia ogni giorno su blog e riviste: quando un vezzo diventa abitudine culturale, non si lascia certo tarlare dal dubbio. Peterson, ricercatore in sociologia presso la Northwestern University, ha trascorso gli ultimi sedici mesi in tre diversi laboratori di ricerca in psicologia dello sviluppo: il suo "The Baby Factory", (http://srd.sagepub.com/content/2/2378023115625071.full) pubblicato lo scorso gennaio e raccontato da Slate http://www.slate.com/articles/health_and_science/science/2016/03/the_psychology_replication_crisis_could_be_due_to_sketchy_practices_in_the.html, è il resoconto di ciò a cui ha assistito e un grido di allarme alla comunità scientifica. Al gigantesco ostacolo rappresentato dalla convergenza di due fattori, ovvero la difficoltà nell'imporre a dei bambini delle regole da seguire per osservare il modo in cui vi si attengono e gli standard disciplinari molto restrittivi, gli psicologi seguiti da Peterson hanno ovviato con il compromesso: pur di raggiungere i dati contenuti nelle ipotesi di partenza hanno modificato e ammorbidito le condizioni sperimentali. Un esempio: per verificare la sensibilità matematica di un bambino e se essa abbia una componente innata, lo si poneva di fronte a uno schermo, dietro al quale prima apparivano due bambole e poi soltanto una. Lo stupore del bambino avrebbe dovuto segnalare l'esistenza di quella sensibilità matematica pregressa. Essendo, però, presente all'esperimento anche la madre del piccolo (la sola autorizzata a interagire con lui anche toccandolo), era necessario che rimanesse con gli occhi chiusi, in modo da non condizionare suo figlio. I laboratori, scrive lo stesso Peterson nel suo paper, non sono e non potranno mai essere templi di verità, né ordinati, né controllabili: sono nati per studiare l'inaspettato, ma affinché quello studio sia efficace, è importante che vi si dettino condizioni categoriche, non modificabili. Cambiare una sola condizione, significa modificare il risultato. Invece, Peterson ha assistito a una sorniona modifica delle condizioni senza che però essa venisse annotata, né bastasse a considerare l'esperimento nullo. Tornando all'esempio precedente, Peterson ha sentito i ricercatori dire a diverse madri che potevano anche rimanere con gli occhi aperti, se proprio non riuscivano a farne a meno.

Svincolare, però, in ambito scientifico non apre alla libertà come in ambito politico: apre solo all'imprecisione, quindi all'errore. Si tratta di un esempio banale che però chiarifica bene in che senso l'analisi di Peterson contesti l'assenza di una qualità metodologica e, infine, l'inquinamento delle teorie che continuano ad essere postulate senza che ad esse si pervenga con il rigore richiesto (a meno che non si voglia stabilire che la psicologia cognitiva sia l'arte di arrangiarsi). A suffragare il lavoro di Peterson e il suo allarme c'è poi un dato di cui negli Stati Uniti si sta discutendo: su cento esperimenti utilizzati per dimostrare una tesi, almeno la metà, se replicati, producono risultati differenti. Si deve tener conto del fatto che la psicologia è la disciplina scientifica che, più delle altre, si presta a generare falsi positivi: gli studi e le ricerche sono relativamente economici e facili da riprodurre, quindi potendo permettersi il lusso di un numero maggiore di repliche, li si conduce con minor rigore (replicare un esperimento di biologia molecolare è assai più dispendioso: si tende a farne pochi, ma per bene). Anche per questo, gli psicologi sono più inclini a studiare con maggiore attenzione le statistiche e ad assumerle con il santo beneficio del dubbio.

Al pubblico, però, quelle stesse ricerche e quegli stessi studi vengono somministrati senza la contemplazione del margine d'errore, senza l'idea della perfettibilità: in questo risiede il germe dello psicologismo, che sta divorando la psicologia e ne sta facendo il culto dei laici. Già Heidegger e Husserl si erano opposti allo psicologismo (la storia del suo scontro con la filosofia, d'altronde, è lunga). A dirla tutta, Heidegger diffidava anche della psicologia: riteneva si trattasse di un sapere indefinibile, inafferrabile, che aveva il demerito di "appartenere al soggetto" e considerarlo come fonte di conoscenza (gettando così il seme dell'individualismo). La cura, che secondo il filosofo doveva essere un tratto essenziale dell'esserci (l'essere in un mondo), non poteva risultare né dall'antropologia, né dalla psicologia poiché entrambe sommano elementi collegati tra loro in modo indistinto.

La buona notizia è che non serve ricorrere alla fenomenologia per mantenere la giusta distanza dalle scoperte con cui, quotidianamente, veniamo bombardati e costretti a ripensarci, perseguitarci con l’introspezione, sentirci ammalati di deficit di attenzione, sindrome di Burn Out, iperattivismo: basta tenere a mente che, nei laboratori di molti psicologi, i bambini non vengono indagati ma condizionati per dimostrare tesi che risultano convincenti solo a chi le ha formulate. Per il resto, vivere è una resiliente e avvincente psicopatologia quotidiana, sarà bene farci l'abitudine.

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