Diecimila equipe al lavoro. Lo scacco delle neuroscienze
Centomila ricerche all'anno sul cervello, ma resta uno sconosciuto
Non solo neuroni attivi, non è solo un computer. Eppure è “come se” trovasse soluzioni istantanee alle equazioni differenziali
Si calcola vi siano al mondo circa diecimila unità di ricerca o di clinica specializzate nello studio del cervello, dal livello molecolare su su fino al cervello umano. Vengono, di conseguenza, pubblicati ogni anno circa centomila lavori specialistici, spaziando dall’umile gasteropode marino aplisia californica, al moscerino della frutta, all’immancabile topo, al coniglio, al macaco e ovviamente all’uomo. Abbiamo visto completata la decade del cervello (1990-2000) e l’ultima iniziativa scientifica dell’ex-presidente Barak Obama, BRAIN, acronimo di Brain Research (through) Advancing Innovative Neurotechnologies. La mole di dati accumulata è talmente immensa che svariati ricercatori in neuroscienze impiegano una non trascurabile parte del loro tempo a disegnare motori di ricerca su misura, per accedere presto e bene alle pubblicazioni e ai dati che a loro interessano di piu’. Però, a dispetto di tale e tanto progresso nelle conoscenze specialistiche, da più parti, nel mondo della ricerca scientifica, si comincia a manifestare una certa delusione. La nostra comprensione di come funziona il cervello non è alla pari della nostra approfondita comprensione di come funziona, per, esempio l’eredità biologica o il sistema immunitario. Ne darò solo alcuni esempi rappresentativi.
Charles Randy Gallistel, docente emerito di psicologia alla Rutgers University (nel New Jersey) e presidente dell’Associazione per le Scienze Psicologiche, riassumendo le sue critiche alla neurobiologia standard, esposte in un saggio del 2011, mi dice: “Le neuroscienze standard non hanno nemmeno una buona teoria della memoria. Sostengono che la memoria risieda in alterazioni delle connessioni tra neurone e neurone, le cosiddette sinapsi, ma questo si è dimostrato un fallimento, sia concettuale che sperimentale. Fallimento concettuale perché nessuno è capace di precisare il codice attraverso il quale, per esempio, vengono immagazzinate distanza, durata, frequenza, taglia e così via. Non possono essere immagazzinate dai processi tanto universalmente invocati. Il fallimento sperimentale consiste nel non aver individuato le proprietà quantitative dei fenomeni al livello cellulare. Nessuno di questi fenomeni è congruo con quanto sappiamo al livello del comportamento e con le proprietà quantitative dell’apprendimento per associazioni.” Gallistel precisa che un meccanismo ben noto da tempo e ben reale, il potenziamento a lungo termine di certi contatti tra certi neuroni (in gergo LTP – Long Term Potentiation) dura al massimo due settimane, quando tutti abbiamo ricordi che risalgono a mesi, anni o decenni. Suggerisce che vi debbono essere dei processi al livello molecolare, insiste che c’è “spazio in basso”, (room at the bottom).
Della stessa opinione è il neuroscienziato e anestesista Stuart Hameroff, dell’Università dell’Arizona, autore, con l’insigne fisico e matematico inglese Roger Penrose, di numerosi lavori sui cosiddetti micro-tubuli, cioè quei corpiccioli altamente organizzati all’interno dei neuroni, capaci di effettuare computazioni e, appunto, anche di immagazzinare memorie genuinamente a lungo termine. Hameroff mi dice: “Vi sono due presupposti errati, nelle neuroscienze standard: il primo è che il cervello sia un computer, formato da scatti di neuroni simili a dei bit, il secondo è che, costruendo una mappa esauriente dei neuroni e delle loro connessioni, si arrivi a una simulazione su computer delle funzioni del cervello, dai più semplici comportamenti e sensazioni, fino al linguaggio e alla coscienza. Ma questo è stato un fallimento. Il cervello è veramente un computer, o piuttosto un’orchestra? Vi sono risonanze su scale molto diverse, organizzate in modo gerarchico, piuttosto simili a quanto vediamo in un’orchestra che esegue una sinfonia.”
Il neuro-linguista Duglas Saddy, dell’Università di Reading (Regno Unito), e la sua equipe stanno cercando da tempo di capire meglio, più realisticamente, quale tipo di computazioni vengono eseguite nei tessuti cerebrali. Usando sofisticati modelli matematici, cercano di verificare come il cervello riesca a risolvere una immensa quantità di problemi in tempo reale, cioè spesso in pochi secondi. Tutto sembra succedere “come se” i tessuti cerebrali veramente trovassero le soluzioni a complesse equazioni differenziali. Ma Saddy mi precisa: “Tutto sta nel capire che cosa significhi realmente questo ‘come se’. E’ ugualmente, come Hameroff e come Gallistel, sospettoso dei modelli tutto-o-niente (on-off) di attivazione dei neuroni, pur così diffusi nella ricerca corrente.
Se Hameroff e Penrose vanno nel microscopico, “dentro” ai singoli neuroni, invece vanno su una dimensione macroscopica il fisico italiano Giuseppe Vitiello (Università di Salerno) e l’elettro-fisiologo Walter Freeman (Università della California a Berkeley, morto quasi novantenne un anno fa), co-autori di numerose recenti pubblicazioni. Il loro approccio tende a coprire onde di eccitazione che coinvolgono regioni cerebrali distanti anche svariati centimetri, in tempi brevissimi, assai più brevi di quanto impiegano a propagarsi gli impulsi nervosi tra neurone e neurone. Per decenni Freeman ha studiato la propagazione delle sensazioni olfattive nel coniglio, faticosamente ottimizzando numero e distanza tra gli elettrodi. Nel coniglio, perché la taglia del cervello e’ grande abbastanza da consentire l’applicazione dei necessari numerosi impianti. Sensazioni olfattive, perché l’inalazione fornisce ogni volta un segnale netto dell’inizio della sensazione. Il loro modello è basato sulla cosiddetta teoria quantistica dei campi (la specialità di Vitiello) e consente di individuare delle onde elettromagnetiche macroscopiche che presentano molte convergenze locali (degli attrattori).
Vitiello mi dice: “In medicina da un lato c’è l’urgenza terapeutica che procede su binari molto spesso solo empirici, dall’altro c’è l’esigenza della sistemazione e comprensione teorica generale e particolare, relativa ai vari settori delle neuroscienze.
Uno degli aspetti positivi della mia collaborazione con Freeman consiste nel fatto che, essendo le neuroscienze non sviluppate come scienza con veri fondamenti teorici, nonostante i grandi successi di dettaglio e applicativi, il lavoro con Walter può essere considerato veramente uno sviluppo assai particolare nella direzione dei fondamenti”. Poi aggiunge: “Non è per vantarmi, ma è solo per mettere in prospettiva l’enorme lavoro di Freeman”.
In fatto di delusioni per le ricerche standard in neurobiologia, citerò quanto ha detto alcuni giorni orsono, in una conferenza all’Università dell’Arizona, la neurologa, neuroscienziata, pediatra e genetista Linda Restifo. “Ancora qualche anno fa si sperava che la scoperta di un gene correlato a una malattia nervosa avrebbe presto portato a identificare il bersaglio, a trovare un farmaco e a sviluppare una terapia razionale ed efficiente. Ma erano speranze premature. Molti geni sono stati identificati, però gli schemi di ereditarietà sono molto complessi, l’impatto delle condizioni ambientali difficile da capire, il bersaglio risulta sfuggente, perfino nel topo, e la scoperta di nuovi farmaci resta altrettanto sfuggente. Quelle speranze si sono rivelate, purtroppo, una fantasia”.
Per concludere, dirò che sono tutt’altro che trascurabili le numerose correlazioni stabilite, grazie alle sofisticate tecniche di brain imaging e all’analisi di patologie, tra specifiche attività cognitive e specifiche regioni cerebrali. Si tratta di preziose e interessanti correlazioni, ma sono solo correlazioni. Perché una certa area cerebrale sia connessa, poniamo, alla presa di decisione, mentre una diversa area è connessa, poniamo, alla sintassi, per ora, nessuno ce lo può dire. Per capire cosa succeda entro tali aree, e perché vi succedano cose diverse, dobbiamo aspettare qualche rivoluzione scientifica, simile alla scoperta della struttura del DNA e poi del codice genetico. Invidio le giovani generazioni di studiosi.
Cattivi scienziati
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