Georges de La Tour - Giocatori di dadi, 1650-1651, olio su tela

Benedetto azzardo

Roberto Volpi

Un dilemma al tavolo da gioco. Fu così che il Cavalier de Méré, abile con i dadi, si rivolse a Pascal. E nacque la teoria della probabilità

Libero pensatore, moralista, giansenista, di nobile famiglia, frequentatore dei salotti buoni, famoso per l’eleganza e le buone maniere ma soprattutto scommettitore e giocatore d’azzardo. In effetti il Cavalier de Méré (1607-1684) alla storia c’è passato più ancora che per i suoi scritti per aver chiesto a Blaise Pascal di sciogliere un dilemma che il cavaliere aveva l’onestà di riconoscere che non sarebbe mai stato capace di sciogliere da solo. La risposta di Pascal spalanca le porte a calcolo e teoria della probabilità, di cui lo stesso Pascal gettò le fondamenta in una famosa corrispondenza intervenuta tra lui e Fermat nel 1654 e rintracciabile nelle Opere di Fermat (1904).

  

La teoria della probabilità è in effetti originata da dispute tra giocatori più o meno professionisti, giocatori d’azzardo, scommettitori. Carte e soprattutto dadi ne sono all’origine. Il Cavalier de Méré era un giocatore di dadi, scommetteva alla pari sull’uscita di almeno un 6 in quattro successivi lanci di un dado. Ora, e lo vedremo alla fine parlando della soluzione che ne diede Pascal, con questa scommessa il cavaliere si assicurava 51,77 probabilità su 100 di vincere. Su 1.000 scommesse poteva dunque sperare di vincerne 518 e perderne 482, con una differenza a suo favore di 36 poste ogni 1.000 scommesse. Ho detto “sperare” perché la probabilità non è la certezza ed è tanto più aderente alla teoria (e la teoria dice, appunto, 51,77 probabilità di vittoria su 100) quanto più i numeri sono grandi, ovvero, nella fattispecie, quanto maggiore era il numero delle scommesse che il cavaliere riusciva a incamerare. Su 1.000 scommesse, infatti, egli era pressoché sicuro di vincere, sempre in base alle leggi della probabilità, da un minimo di 515 a un massimo di 521 volte. Dunque, guadagni assicurati.

 

Ma il cavaliere era un empirico, non un matematico della probabilità – come, del resto, ai suoi tempi ancora non ce n’erano. Difficile dire qual era il ragionamento che stava alla base della sua scommessa, su cosa si basava il suo intuito di scommettitore. Su innumerevoli serie di quattro lanci di un dado da lui stesso esperite in solitudine, è del tutto lecito pensare, semmai incrementate da quelle che facevano parte delle scommesse vere e proprie. Su queste innumerevoli serie di quattro lanci egli doveva aver colto quella discrepanza tra le circa 52 volte in cui in quelle serie si manifestava almeno un 6 contro le circa 48 volte in cui in quelle serie non si manifestava alcun 6. E aver deciso conseguentemente di proporre la sua scommessa alla pari negli ambienti – ambienti alti e danarosi – che bazzicava abitualmente. Ambienti adusi a giocare e scommettere. Non c’erano ancora roulette e poker, in Francia come altrove, che arriveranno nel 1800, ma i dadi esistevano si può ben dire da sempre, essendo apparsi già nell’antico Egitto, mentre le carte da gioco, apparse in Cina attorno al Mille e in Europa poco dopo, al tempo del Cavalier de Méré e di Pascal e Fermat hanno già qualche secolo d’intensa vita e vicissitudini, abbastanza per il fiorire, anche qui, di giochi e scommesse sui giochi di carte.

 

La scommessa, l’azzardo aguzzano l’ingegno, sollecitano calcoli e ragionamenti, spingono ad affinare l’attenzione, a osservare con acume. Chi giocava allora d’azzardo lo faceva o, almeno, ci provava. Segnava i risultati, cercava di trarne deduzioni e conclusioni. Non si scommette così, all’impronta. O meglio, lo si può anche fare, specialmente se si hanno soldi da buttare, ma normalmente si scommette in base a qualche ragionamento o convinzione: o perché si sa di avere una ragionevole possibilità di vincere o perché pur conoscendo che quella possibilità non è così ragionevole si accetta il rischio contro una ricompensa, in caso di vittoria, ch’è di molte volte superiore alla posta che abbiamo arrischiato. In un caso come nell’altro occorre avere o almeno provarsi a prendere qualche confidenza con i concetti di casi possibili, ovvero tutti quelli che si hanno in un gioco, e casi favorevoli, ovvero quei soli casi che quando si presentano ci procurano una vittoria. Semplice a dirsi, a volte spaventosamente difficile a farsi. Sovente del tutto impossibile, senza ricorrere alla teoria della probabilità. Che però non c’era quando il Cavaliere de Méré pose il suo quesito a Pascal attorno alla metà del XVII secolo.

 

Anche con i dadi, ben meno complessi delle carte, il problema è assai semplice se ci si ferma al lancio di un dado: si lancia un dado, i casi possibili sono 6, tanti quanti le facce (e i punteggi) del dado, e di questi se ne verifica uno soltanto: dunque se scommettiamo su una determinata faccia, il nostro caso favorevole, abbiamo una possibilità su 6 di vincere. Se scommettiamo su due facce e non su una soltanto le nostre speranze di vittoria raddoppiano da una a 2 su 6, essendo 2 i casi favorevoli su un numero invariato di casi possibili. Inutile dire che però più la scommessa si fa facile, aumentando la proporzione dei casi favorevoli sui casi possibili, e meno riceveremo come corrispettivo in caso di vittoria. Si può anche decidere di comprare, per Natale, tutti i numeri della lotteria del bar sotto casa, rastrellando primo, secondo e terzo premio, ma non si vede dove sia la convenienza, essendo pacifico che il nostro barista avrà fatto in modo da lucrare un guadagno dalla vendita dei biglietti, ovverosia che il costo dei biglietti è decisamente superiore al valore dei premi. Più giochi pensando di annullare l’azzardo, ovvero andando sul sicuro, e meno guadagni. D’altro canto la strategia opposta rischia di prosciugarti il portafoglio in un amen. L’azzardo non è essere stupidi, e neppure sciocchi. Teoricamente almeno, anzi, è tutto l’opposto.

 

L’azzardo implica conoscenza. Azzardo se so cos’è che rischio, quanto rischio e qual è il livello di rischio che sono disposto a correre. Si è sempre giocato, d’azzardo, dai tempi dei tempi, tutto l’insieme degli eventi cosiddetti di fortuna è stato creato per il divertimento e il piacere dell’uomo. Il fatto che possa trasformarsi in amarezza e sconforto non cambia la questione: la casualità, il fato, la dea bendata, la fortuna che si annidano nei giochi, che fanno i giochi, nel senso che danno loro sostanza, fanno parte della vita. E infatti si è sempre giocato e scommesso, si è sempre azzardato. Sempre. Ma naturalmente è vero che più soldi ci sono in circolazione, e più persone hanno soldi, e più lievitano giochi e scommesse. Che oggi si giochi e si scommetta assai di più che, mettiamo, ai tempi di Gesù è pacifico: oggi siamo immensamente più ricchi, mediamente parlando, di allora. Anche se c’è chi proprio non riesce a realizzare che il bue e l’asinello rappresentavano allora pur sempre una forma di riscaldamento, quello procurato dagli animali, completato da un po’ di legna da ardere e da un po’ di escrementi essiccati coi quali soffocare più ancora che riscaldarsi.

 

Ma insomma, il Cavaliere de Méré si trovava bene con la sua scommessa e pensò, per differenziare l’offerta, di offrirne una variante che presumeva gli desse le stesse soddisfazioni, ovvero le stesse vincite. Salvo accorgersi che non era così. Ampliare l’offerta era buona cosa, indispensabile per mantenere e anzi allargare la platea dei suoi scommettitori, ma la variante dimostrò di non funzionare e, non capendo perché, il Cavalier de Méré si rivolse all’allora suo amico poco più che trentenne e già affermato matematico, malmesso dal punto di vista della salute come lo fu in tutti i suoi 39 anni di vita, Blaise Pascal. Fosse rimasto fermo alla sua prima scommessa, non avesse inteso risultare più stuzzicante e invogliante, non avesse provato a innovare – una vera e propria innovazione di prodotto – il Cavaliere non avrebbe messo in moto il genio matematico di Pascal e la storia, nella fattispecie quella della probabilità, non sarebbe stata la stessa. La variante consisteva nello scommettere, sempre alla pari, che sarebbe uscita una coppia di 6 in 24 lanci di due dadi. Il Cavaliere la riteneva perfettamente uguale all’originaria scommessa sull’uscita di almeno un 6 su 4 lanci. Infatti, ragionava, 4, numero di lanci, moltiplicato per 1/6 (rapporto tra casi favorevoli – l’uscita del 6 – e casi possibili nel lancio di un dado) dà per risultato 4/6, ovvero 2/3, due terzi, esattamente come dà per risultato 2/3 la moltiplicazione tra 24 lanci e 1/36 (rapporto tra casi favorevoli – l’uscita di una coppia di 6 – e casi possibili nel lancio di due dadi, dove i casi possibili sono 36 potendo ogni faccia di un dado presentarsi assieme a ogni faccia dell’altro dado).

 

Pascal dette un fondamento teorico inoppugnabile alla “saggezza” della prima scommessa del Cavalier de Méré, così come dimostrò, con lo stesso procedimento, la “non saggezza” della seconda scommessa del Cavaliere. Egli, Pascal, invertì completamente il ragionamento che facevano allora tutti i giocatori d’azzardo: quello di pensare in base alle possibilità che avevano di vincere. Partì, intuendo subito che altrimenti non sarebbe arrivato da nessuna parte, dalla probabilità di perdere, ovvero da quella che il 6 non apparisse nemmeno una volta nei quattro lanci consecutivi di un dado. La probabilità che il 6 non esca nel lancio di un dado è ovviamente 5/6, 5 diviso 6, essendo 5 su 6 le facce del dado che non sono 6 (il lettore si provi a seguire il procedimento che diremo utilizzando la probabilità di 1/6 di vincere, vedrà come non ci sia modo di andare avanti, se non approdando a risultati contrari alla logica). Poiché i lanci di un dado sono eventi indipendenti l’uno dall’altro, la probabilità di nessun 6 in quattro lanci è: (5/6) x (5/6) x (5/6) x (5/6) = (5/6)4, ovvero 5/6 elevato alla quarta, ovvero 625/1296. La probabilità di almeno un 6, evento contrario e complementare, sarà pertanto data semplicemente da 1 – 625/1296 = 671/1296 = 0,51774, meglio leggibile se lo moltiplichiamo per 100, così da concludere che in una serie di 4 lanci il 6 (come un qualsiasi altro punteggio del dado) ha una probabilità pari al 51,77 per cento di presentarsi almeno una volta. Il Cavalier de Méré aveva pensato bene la sua scommessa.

  

Ma reiterando il procedimento Pascal scoprì che il Cavaliere non aveva pensato altrettanto bene la sua seconda scommessa, quella che giudicava nient’altro che una variane della prima, e che invece non lo era, era a tutti gli effetti un’altra scommessa che non gli era invece favorevole, in quanto la probabilità di non avere una coppia di 6 nel lancio di due dadi è 35/36, essendo 36 i risultati possibili nel lancio di due dadi, mentre quella di non avere alcuna coppia di 6 in 24 lanci di due dadi sarà data da 24 volte la moltiplicazione di 35/36, ovvero da (35/36)24, 35/36 elevato alla 24esima potenza, e quella di avere almeno una coppia di 6, evento contrario e complementare, sarà data da 1 – (35/36)24, che dà come risultato 0,4914. La probabilità di ottenere almeno una coppia di 6 in 24 lanci di una coppia di dadi è pari al 49,14 per cento. In 1.000 lanci di due dadi il Cavaliere de Méré poteva sperare di vincere 491 volte e perdere 509: non aveva pensato bene la sua variante, anzi la sua seconda scommessa. Risparmio al lettore l’errore, concettuale, che faceva il Cavaliere e annoto piuttosto come oggi con Excel sia un gioco da ragazzi calcolare la 24esima potenza di 35 e la 24esima potenza di 36 e quindi rapportare la prima alla seconda per arrivare al risultato nel giro di una manciata di secondi. Ma il buon Pascal, che soffriva tra le altre cose di insonnia e mal di denti, procedendo rigorosamente a mano deve avercene impiegato di tempo, e di attenzione, per arrivare a due risultati di 37 cifre ciascuno da dividere tra di loro.

  

La “matematica” della probabilità che per la prima volta Pascal applicava in tutta la sua potenza, interviene quando cerchiamo un metodo per enumerare tutti i casi possibili senza doverli contare realmente. I casi possibili lanciando 24 volte una coppia di dadi sono un’enormità, data 36 moltiplicato per sé stesso la bellezza di 24 volte, giacché ogni volta che tiriamo una coppia di dadi possiamo avere 36 diversi risultati ciascuno dei quali può combinarsi con ciascuno dei 36 risultati di un altro lancio dando luogo a 1.296 risultati possibili che possono combinarsi con ciascuno dei 36 risultati di un altro lancio ancora dando luogo a 46.656 risultati possibili che possono… e via così per 24 volte. Non c’è modo di enumerarli, tutti questi casi possibili, uno a uno. Ma neppure ce n’è bisogno, avendo la formula che ci permette con qualche moltiplicazione di conoscerne il numero. E analogamente con i casi favorevoli, che sono, of course, sempre inferiori ai casi possibili.

 

Ed ecco, dunque che teoria e calcolo delle probabilità sono ormai lanciati, lanciatissimi. Nel 1657 il matematico olandese Christiaan Huygens dà alle stampe il primo volume mai stampato sulla probabilità – De ratiociniis in ludo aleae – mentre forse il punto più alto dello sviluppo delle teorie probabilistiche, Ars Conjectandi, dello svizzero Jakob Bernoulli, è del 1713 e contiene molte delle complesse implicazioni filosofiche che caratterizzano l’argomento al giorno d’oggi.

 

Non solo implicazioni filosofiche, indubbiamente, hanno costellato il cammino della probabilità: dallo sterminato campo delle assicurazioni alle teorie fisiche più moderne, dalla genetica alla scienza sperimentale: tutto, a ben guardare, si è sviluppato nel segno della probabilità. Eppure le origini della probabilità sono le più umili che mai si siano date per un ramo, e per giunta così decisivo, della scienza: le scommesse nei giochi d’azzardo. Se non si fosse scommesso, e non ci fossero stati scommettitori del tipo del Cavalier de Méré, la probabilità avrebbe atteso, a sorgere. E chissà quanto. Con danni formidabili per il progresso e il benessere dell’uomo e dell’umanità. Giù il cappello, allora, di fronte a quei giocatori d’azzardo.