Dentro agli occhi dei bambini c'è il segreto del cervello umano
Un gruppo di scienziati ha analizzato la dilatazione delle pupille e ha scoperto che pensano come gli adulti. Parla lo psicologo cognitivo Luca Bonatti
E’ un’astuzia tramandata dai mercanti più accorti, di bocca in bocca, per secoli: quando un acquirente osserva un articolo che lo (o la) interessa, si osserva una minima dilatazione delle pupille. Il mercante accorto e buon osservatore può iniziare la contrattazione. Oggi esistono metodi molto accurati per registrare la dilatazione delle pupille e, mercanti a parte, si può associare questo micro-fenomeno a uno stato di sforzo cognitivo, ragionamento e decisione, anche in bimbi piccolissimi. E’ quanto ha fatto un’agguerrita equipe di ricercatori italiani, spagnoli, ungheresi e polacchi in un articolo che esce oggi su Science. Il capo di questa equipe, lo psicologo cognitivo Luca Bonatti, professore dell’Icrea (Istituto Catalano di Ricerche e Studi Avanzati) dell’Università Pompeu Fabra a Barcellona, in un’intervista in esclusiva per il Foglio, mi dice che i loro risultati sul ragionamento in bambini tra i 12 e i 19 mesi di età si inserisce e forse conclude un dibattito che risale alle ipotesi del grande psicologo ginevrino, il compianto Jean Piaget. I loro dati, però, discordano dal lento e progressivo sviluppo del ragionamento alla Piaget e confermano, invece, le ipotesi del cognitivista americano Jerry Fodor, di cui Bonatti è stato un tempo studente e collaboratore. Mi dice: “Il nostro lavoro, nel quale ha svolto un ruolo di primo piano il ricercatore italiano Nicolò Cesana Arlotti, ora alla Johns Hopkins University, suggerisce che, alla base del ragionamento razionale, si trovano procedure logiche elementari stabili nel tempo, e mostra piuttosto chiaramente che esse sono indipendenti dalla capacità di ragionare in una lingua naturale. Insomma, il nostro lavoro indica che Jerry Fodor aveva ragione, contro Piaget e molti altri, quando ipotizzava che la mente ragionasse grazie a un ‘linguaggio del pensiero’ sostanzialmente privo di sviluppo e indipendente dalla capacità ‘esterna’ di parlare o comprendere una lingua naturale".
Interessante conclusione, senz’altro. Basata su quali metodi di indagine? Bonatti risponde: “Abbiamo presentato a infanti di 12 e 19 mesi brevi scene computerizzate che contenevano un’ambiguità. In esse, due oggetti differenti con la parte superiore identica (per esempio un dinosauro e un fiore) entrano in un teatrino virtuale. Mentre un sipario li nasconde, un contenitore cala dietro il sipario e ne prende uno, senza che si possa sapere quale, perché se ne può vedere soltanto la parte superiore. Pensiamo che in questo momento l’infante possa rappresentare una scena con un’alternativa logica (‘dinosauro o fiore?’). Successivamente il secondo oggetto ancora nascosto dietro al sipario si rivela. In questo preciso momento, l’infante disponeva dell’informazione necessaria per identificare l’oggetto nel contenitore, anche senza vederlo, effettuando una deduzione logica elementare: vedo un dinosauro, dunque dentro il contenitore ci deve essere un fiore. Seppure elementare, questo sillogismo disgiuntivo è alla base del ragionamento per ipotesi ed eliminazione di ipotesi tipico di Sherlock Holmes: Il colpevole è A, B, o C. A non può essere perché… B non può essere perché… Dunque sarà C!”.
I ricercatori hanno seguito in dettaglio non solo la dilatazione delle pupille, ma anche la direzione dello sguardo dell’infante, millisecondo dopo millisecondo. La figura multicolore che mostra questi dati, pubblicata ora su Science, fa pensare a una galassia. Una verifica inevitabile consiste nel mostrare altre scene identiche, ma organizzate in modo tale che l’infante sapesse sempre già quale oggetto era nella coppa, e dunque non avesse bisogno di dedurre nulla per determinarne l’identità, anche quando non poteva vederlo. Ulteriore, decisiva verifica con gli adulti. Bonatti, infatti, precisa: “Abbiamo studiato nei dettagli due momenti cruciali: la fine delle scene, per verificare se gli infanti fossero sorpresi quando la scena terminava in modo incoerente con l’inferenza logica – e la risposta è stata chiara: sì, a partire dai 12 mesi gli infanti guardano più a lungo scene incoerenti – ma soprattutto il secondo o poco più in cui gli infanti potevano effettuare la deduzione. Per questo abbiamo studiato la dilatazione pupillare e mostrato che poco dopo l’uscita dell’oggetto dal sipario, e cioè quando si può dedurre il contenuto del contenitore anche senza vederlo, la pupilla si dilatava, un segno di sforzo cognitivo probabilmente legato all’inferenza. Infine, abbiamo mostrato che anche in un adulto compare questo segno probabile di inferenza con caratteristiche temporali estremamente simili a quelle di un infante. Una tale costanza in età così differenti è sorprendente, e suggerisce che i processi di ragionamento elementare sono sostanzialmente identici in adulti e bambini molto piccoli”.
Gli chiedo cosa si sapeva o credeva di sapere prima di questi dati. “Sapevamo che gli adulti, e in parte i bambini, sono dotati di capacità di risoluzione di problemi molto sofisticate. Queste capacità sono state descritte come dipendenti da ‘moduli cognitivi’, molto efficaci ma molto specifici, che, come Fodor e altri hanno ben mostrato, possono generare errori e distorsioni cognitive in età adulta. Recentemente però sono apparsi segni di capacità di ragionamento più generali, che suggeriscono la presenza di processi razionali non modulari anche in infanti. Bambini di un anno o poco più possono formulare ipotesi su quello che vedono, sono sorpresi quando queste ipotesi sono falsificate, e possono inventarsi modi di testare ipotesi alternative, un po’ come piccoli scienziati. Penso in particolare ai lavori di Lisa Feigenson, a Johns Hopkins, o Laura Schulz al Mit. La loro natura resta però ancora quasi totalmente ignota, come ignote sono le relazioni fra tali capacità e la lingua che parliamo”.
Concludo chiedendogli quale sarà la prossima svolta. “Sappiamo molto sulle capacità di ragionamento, logico e non logico, grazie anche al lavoro di ottimi studiosi italiani fra i quali Paolo Legrenzi e il compianto Vittorio Girotto. Tuttavia la quasi totalità delle nostre conoscenze dipende da studi del ragionamento esplicito, presentato in forma verbale o scritta, ma comunque linguistica. Ora, il ragionamento è un fenomeno onnipresente nella nostra vita mentale: ragioniamo, sì, quando discutiamo, leggiamo o parliamo, ma anche quando passeggiamo per strada, quando vediamo cose passarci davanti agli occhi, quando fantastichiamo mentre facciamo tutt’altro. Di questa continua attività inferenziale non linguistica non sappiamo pressoché nulla. In passato, in collaborazione con altri eccellenti psicologi e neuropsicologi – fra cui in Italia Carlo Reverberi, a Milano – abbiamo cercato di delineare un modello delle strutture cerebrali coinvolte nel ragionamento logico usando, come altri, storie e stimoli in una lingua naturale che un adulto può capire, ma non un infante. In quelle ricerche abbiamo mostrato che il network coinvolto nel ragionamento logico coincide soltanto parzialmente con il network implicato nell’analisi del linguaggio. Ora, se siamo veramente riusciti a trovare un modo di mettere il dito sul ragionamento elementare non linguistico, cosa che sembrano suggerire le reazioni oculari dei nostri infanti, abbiamo anche potenzialmente trovato modo di estendere lo studio dei sistemi cerebrali coinvolti nel ragionamento non linguistico, esplorando tutte quelle aree della nostra vita mentale per ora ignote”.
Dietro l’angolo, quindi, com’era da aspettarsi, c’è il cervello. Bonatti e colleghi stanno programmando esperimenti per descrivere la neuroimmagine del ragionamento non verbale, usando la risonanza magnetica negli adulti e la topografia ottica non invasiva nei bambini. Questi studi possono permettere un’analisi del ruolo di varie aree frontali che sono in forte sviluppo durante la crescita, ma anche ben presenti anche in un bambino nei primi mesi di vita. Quando, poi, sboccia il linguaggio, si schiude l’enorme mare del ragionamento deduttivo generale. Si potrà studiare fino a che punto i bambini concepiscono scene complesse utilizzando tacitamente operatori logici come quantificatori (ogni, tutti, alcuni, pochi eccetera), i connettivi logici e gli operatori modali (possibile, necessario) prima di poterli esprimere linguisticamente. La domanda centrale è come si plasma la relazione fra queste capacità logiche prelinguistiche (se esistono) e l’acquisizione di strutture enormemente complesse e contorte come quelle di una lingua naturale. Ogni lettore o lettrice che non possiede un gatto può non avere poche inclinazioni a passeggiare con almeno un cane. Conclusione? Siete cordialmente invitati a recarvi a Barcellona per essere testati in un apparato di risonanza magnetica funzionale.
Cattivi scienziati