Abbiamo 12 anni per salvare il pianeta dai cambiamenti climatici. Di nuovo
Tra il report dell’Ipcc e la prossima, decisiva, Cop delle Nazioni Unite
Roma. A fine 2018 si terrà a Katowice, in Polonia, la Cop 24, riunione organizzata dalle Nazioni Unite in cui i leader di tutto il mondo discuteranno di come affrontare i cambiamenti climatici e fermarne gli effetti nefasti sul pianeta. La Cop 24 ha il compito di trasformare in regole da rispettare i princìpi enunciati nell’Accordo di Parigi al termine della Cop 21, nel 2015. Nel frattempo, come ovvio, ci sono state la Cop 22 e la Cop 23, entrambe interlocutorie – un modo elegante per dire che non hanno prodotto alcun impegno se non quello di prenderne alla Cop successiva. Come ogni Cop che si rispetti, anche quella polacca è stata preceduta da riunioni più o meno urgenti e conferenze preparatorie da parte dei 200 firmatari dell’Accordo.
Al momento, però, a parte qualche dichiarazione piena di luoghi comuni e buone intenzioni, non sembra ci siano le basi perché la Cop 24 possa effettivamente portare ad accordi vincolanti e decisivi. Lo si capisce leggendo le proteste dei paesi in via di sviluppo, che come sempre si rifiutano di intraprendere costose politiche di taglio alle emissioni di gas serra (la panacea che risolverebbe di colpo tutti i problemi di riscaldamento globale del mondo secondo la vulgata) se prima non lo fanno, e con decisione, i paesi industrializzati. E’ dai tempi della prima conferenza sul clima voluta dall’Onu, nel 1992, che questo teatrino pressoché inutile e costoso va avanti di promessa non mantenuta in promessa non mantenuta. Incredibile come in ventisei anni a nessuno sia venuto il dubbio che forse per contenere gli effetti dei cambiamenti climatici bisognerebbe cambiare strategia, smetterla di urlare alla catastrofe imminente e di fare promesse buone solo per i titoli dei giornali e qualche condivisione allarmata sui social network. Come da prassi, il panel intergovernativo sul clima (Ipcc) ha pubblicato il suo tradizionale report che nessun politico leggerà, neppure nella sua versione breve, che spiega come l’obiettivo che i leader del mondo si sono dati a Parigi, contenere l’aumento della temperatura media del pianeta entro gli 1,5 gradi dall’èra preindustriale, sarà miseramente fallito. Gli scenari che si aprono sono già stati naturalmente ingigantiti dai media, a partire dal calcolo del punto di non ritorno, un esercizio che da qualche decennio ha impegnato diversi esperti e sedicenti tali. L’ultima è che avremmo dodici anni prima che qualunque nostra azione diventi del tutto inutile per salvare il mondo dalla distruzione climatica (non undici, né tredici: dodici).
Curioso, perché stando a quanto diceva l’ex vicepresidente americano Al Gore, vincitore del Nobel per la Pace assieme all’Ipcc per i suoi studi sul clima, nel 2006 avevamo dieci anni di tempo. Nel 2015 secondo l’Onu gli anni di tempo erano 15 (più o meno ci siamo), ma nel 1989 la deadline era l’anno 2000. Nel 2007 improvvisamente l’asticella si spostò al 2012, mentre nel 2009 l’attivissimo principe Carlo d’Inghilterra avvisava tutti che se non si fosse agito entro 100 mesi il mondo sarebbe stato perso. I 100 mesi sono finiti nel 2017, ma due anni prima Carlo aveva rassicurato tutti: “Abbiamo trentacinque anni per salvare il pianeta”. Meglio così, dato che uno dei padri dell’ecologismo americano, George Perkins Marsh, nel 1864 aveva dato pochi anni di vita all’umanità a meno che non avesse cambiato in fretta le proprie abitudini. Restiamo ottimisti, comunque. In questi anni abbiamo imparato che il summit che salverà il mondo è sempre il prossimo. Attendiamo fiduciosi.
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