Il lanciatore Vega, il più piccolo dei lanciatori europei, sulla Terrazza Civita in piazza Venzia a Roma (Foto LaPresse)

L'alleanza spaziale europeista

Giulia Pompili

È impossibile far fuori la politica dalla ricerca astronautica, però l’Italia, finora, ci era riuscita alla grande

“Europea di nazionalità italiana”, c’è scritto nella biografia su Twitter di Samantha Cristoforetti, capitano dell’Aeronautica militare e astronauta dell’Agenzia spaziale europea. E come si fa a non essere pazzi di lei, che rappresenta uno degli antidoti possibili al veleno populista, antiscientista, complottista e soprattutto protezionista che di questi tempi inquina il pianeta terra (leggetevi “Diario di un’apprendista astronauta”, La Nave di Teseo, e diteci se ci sbagliamo). Lo spazio, in teoria, sarebbe l’unico luogo in cui l’europeismo funziona davvero: la collaborazione tra i paesi europei è necessaria, perché i progetti sono costosi, e lo scambio, i contributi internazionali rendono fertili le idee.

La fiducia nelle proprie capacità (eccellenze, e scusate la parola) non è considerata una competizione sleale, ma uno stimolo a fare di più, a fare meglio. Basterebbe guardare “Arrival”, film fantascientifico del 2016 girato da Denis Villeneuve e basato sui racconti di Ted Chiang per avere una lezione sul tema: arrivano dodici astronavi, apparentemente innocue, che si posizionano in dodici punti diversi della terra. Inizialmente tutti i paesi decidono di collaborare per arrivare a un sistema condiviso con cui comunicare con gli alieni. Poi però un sfiducia comune prevale, e si rischia il conflitto mondiale.

 

Jan Woerner, direttore generale dell’Agenzia spaziale europea (Esa), dopo la revoca del mandato alla presidenza dell’Agenzia spaziale italiana di Roberto Battiston da parte del governo italiano, ha scritto su Twitter: “Sono molto dispiaciuto che Battiston lasci l’Asi, apprezziamo molto il suo lavoro”. A sentir parlare chi frequenta l’ambiente, sin dal 2014, l’anno della prima nomina, Battiston era riuscito a far dimenticare gli scandali del passato dell’Agenzia italiana. Grazie ai suoi contatti personali e all’apprezzamento della comunità scientifica, Battiston aveva messo in piedi un sistema di collaborazioni internazionali basate sulle eccellenze italiane. L’ormai ex presidente dell’Asi martedì scorso aveva annunciato con un tweet di essere stato rimosso dal suo posto: “E’ il primo spoil system di Ente di Ricerca”, aveva scritto.

 

La collaborazione tra i paesi è necessaria, perché i progetti sono costosi, e lo scambio, i contributi internazionali rendono fertili le idee 

La revoca del mandato – che gli era stato rinnovato dal ministro Fedeli a maggio – arriva dal governo del Cambiamento, soprattutto dall’area leghista che, a leggere le indiscrezioni della stampa, vorrebbe mettere a capo dell’Asi Pasquale Preziosa, capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica dal 2013 al 2016. Insomma il governo vorrebbe cambiare l’indirizzo dell’Asi dalla ricerca scientifica a quella militare. Uno spostamento che di sicuro avrà delle conseguenze dal punto di vista degli obiettivi, ma anche della posizione italiana sul piano internazionale.

 

Del resto, la politica non è mai stata davvero fuori dallo spazio, e i libri di storia sulla Guerra Fredda sono lì a dimostrarcelo. Non c’è soltanto l’esplorazione spaziale, che consegna autorevolezza e prestigio, ma anche lo show di forza, la ricerca scientifica e tecnologica, le capacità militari. L’esempio più banale è quello della Corea del nord: l’agenzia spaziale di Pyongyang per decenni è stata la copertura nordcoreana per testare missili balistici a lungo raggio. Questo però, più di ogni altra cosa, è il secolo dei satelliti artificiali applicativi: internet, la televisione, le previsioni del tempo, i sistemi di posizionamento. Tutta la nostra vita smart, ormai, si basa sull’esistenza dei satelliti.

 

E se qualcuno, qualcuno tipo un nemico, ne prendesse il controllo? Sui siti specializzati, le notizie di potenziali microconflitti nello spazio da parte di paesi in concorrenza tra loro sono quasi quotidiane. Basti pensare al Kosmos 2521, lanciato dalla Russia un anno fa e che l’America non considera un normale satellite geostazionario, ma una misteriosa “arma spaziale” per via del suo “comportamento anomalo”. “Anche se i sistemi spaziali americani hanno storicamente mantenuto un vantaggio tecnologico rispetto a quelli dei potenziali avversari, questi potenziali avversari ora si stanno sviluppando velocemente per negarci l’uso dello spazio in caso di crisi”, recita un rapporto del dipartimento della Difesa americano dell’agosto scorso.

 

Attualmente sono tre gli astronauti europei che stanno imparando il mandarino. La Puglia protagonista dei voli suborbitali

Il più grande investimento europeista della storia dello spazio europeo si chiama Galileo. E’ un sistema di posizionamento e di navigazione satellitare per uso civile che dovrebbe far concorrenza al Global positioning system americano (il Gps, quello che usate per Google map, per esempio, e che è nato negli anni Settanta con scopi militari) e il Glonass russo. A fine luglio tutti e ventisei i satelliti che fanno parte di Galileo sono entrati in orbita, ed entro il 2026 il sistema alternativo e totalmente europeo dovrebbe entrare in funzione. Il problema, naturalmente, è sempre politico: ogni paese che fa parte dell’Unione contribuisce con una quota al funzionamento dell’Agenzia spaziale europea.

 

Attualmente l’Italia è il terzo contributore, dopo Germania e Francia. Anche per il sistema Galileo, che alla fine dei lavori costerà quasi dieci miliardi di euro, ognuno ha messo la sua quota. Dopo la Brexit, l’Unione europea ha fatto sapere che l’accesso alle informazioni di Galileo sarebbe stato ridotto per l’Inghilterra, una possibilità che ha scatenato le proteste di chiunque: Londra sa che un sistema autonomo made in Uk sarebbe impossibile da creare, per via dei costi e dei tempi, e ha minacciato di volere indietro il miliardo di euro già investiti per il progetto. Le discussioni sulla questione – tutte politiche – sono ancora in corso.

 

Per capire l’importanza della ricerca spaziale europea (e quindi di ogni singolo paese dell’Unione) bisogna guardare fuori, alla competizione messa in piedi dalle altre potenze del campo. Una gara che sempre più spesso viene definita una rinnovata, ipertecnologica “corsa allo spazio”. Già a giugno la Casa Bianca aveva annunciato la creazione di una Space Force, una sesta armata che dovrebbe far capo al dipartimento della Difesa. Secondo il presidente americano Donald Trump, separare la Forza spaziale dal comando dell’Aeronautica servirà ad allocare budget e personale in modo esclusivo a mezzi e uomini che difenderanno gli interessi, soprattutto militari, dell’America nell’orbita terrestre.

 

L’attenzione che Trump sta mettendo nelle politiche spaziali è notevole: appena arrivato alla Casa Bianca, ha re-istituito il National Space Council, un organismo che fa capo all’ufficio del presidente e che era stato smantellato nel 1993 da George W. Bush, quando lo spazio ha iniziato a sembrare un inutile e costosissimo carrozzone (anche molto pericoloso, considerate le tragedie degli Space Shuttle Challenger e Columbia). Già Barack Obama aveva pensato a una reintroduzione del Consiglio, per coordinare la ricerca pubblica, affidata alla Nasa, e quella privata, che nel frattempo ha fatto passi da gigante con aziende come la Boeing, la Space X di Elon Musk o la Virgin Galactic Richard Branson.

 

E’ stato il vicepresidente americano Mike Pence, che è anche a capo del National Space Council e che negli ultimi mesi ha visitato ogni spazioporto e infrastruttura della Nasa su territorio americano, a definire meglio il ruolo della nuova rinnovata fiducia dell’America nei confronti del business aerospaziale, puntando poco sull’innato desiderio umano di esplorare, e tutto sulla politica: “Come dimostrano le loro azioni, i nostri avversari Cina e Russia hanno già trasformato lo spazio in un territorio di guerra, e gli Stati Uniti non si tireranno indietro da questa sfida”, ha detto Pence durante un discorso al Pentagono nel settembre scorso. “L’America cercherà sempre la pace nello spazio, così come fa sulla terra, ma la storia dimostra che la pace arriva solo attraverso la forza, e in futuro la Space Force americana sarà la più forte”. La competizione, quindi, non è mai finita, ma oggi tra America, Europa e Russia a spaventare è piuttosto un’altra potenza: la Cina.

 

La Stazione spaziale internazionale (Iss) è il luogo simbolo della cooperazione tra blocco sovietico e occidentale del post Guerra fredda. Ma da quando l’America ha smantellato il suo programma spaziale, il monopolio dei lanci verso la stazione orbitante ce l’ha la Russia. E’ dal 2000 che ogni anno la Nasa, così come l’Agenzia europea, pagano il biglietto a Mosca per avere un “passaggio” verso l’Iss (71 milioni di dollari a persona). Un tempo anche i materiali che servivano agli astronauti in missione sulla Iss dovevano essere spediti dai cargo russi, oggi invece sono soltanto gli esseri umani a viaggiare attraverso il cosmodromo di Baikonur, che si trova in territorio kazako amministrato dalla Russia.

È un monopolio che da tempo Washington sta cercando di togliere a Mosca: negli ultimi dieci anni i rapporti tra i due paesi sono precipitati, e il peggioramento ha interessato anche le politiche spaziali – un luogo di cooperazione intoccabile fino agli anni Novanta. Quando l’America ha introdotto le sanzioni economiche contro la Russia, Mosca ha reagito minacciando di chiudere con la Stazione spaziale internazionale – quindi i voli da Baikonur sulla Soyuz. Una decisione che renderebbe praticamente impossibile sostituire gli equipaggi in orbita. Nel frattempo la Nasa ha dato il via al Commercial Crew Program, gestito in parte da Boeing e SpaceX, che però continua ad avere ritardi sulla tabella di marcia. Il lancio del primo astronauta a partire da suolo americano sin dal 2011 era programmato per lo scorso anno, e non è mai avvenuto.

 

Un ulteriore problema si è presentato l’11 ottobre scorso, quando l’astronauta americano Nick Hague della Nasa e il cosmonauta russo Aleksey Ovchinin della Roscosmos hanno avuto un problema tecnico a bordo della Soyuz che li avrebbe dovuti portare sulla Stazione spaziale internazionale. I due sono stati costretti a una procedura d’emergenza e sono tornati sulla terra dopo circa 50 minuti dal lancio. “L’atterraggio di emergenza compiuto giovedì 11 ottobre dalla Soyuz – l’unico mezzo di trasporto per gli astronauti verso la Stazione Spaziale Internazionale”, ha scritto Emanuele Menietti sul Post, “complicherà le attività sulla Iss e potrebbe portare a un suo temporaneo abbandono in attesa di verificare le cause dei malfunzionamenti. L’Agenzia spaziale russa ha già avviato indagini e analisi tecniche per capire che cosa sia andato storto subito dopo il lancio, ma potrebbero essere necessari mesi prima che si decida di far volare nuovamente gli astronauti con le Soyuz”.

 

Il più grande investimento europeista della storia dello spazio dell’Unione si chiama Galileo, traccerà i nostri movimenti

 Come detto, in questa guerra di posizione la grande esclusa finora è stata la Cina, che isolata dalla festa internazionale nel frattempo correva da sola. All’Airshow China di Zhuhai di qualche giorno fa, Pechino ha mostrato per la prima volta il cuore pulsante della sua prossima stazione orbitante, la Tiangong-3, che dovrebbe essere operativa entro il 2022. A meno che qualche privato non metta le mani sulla Stazione spaziale internazionale, la stazione orbitante che attualmente ospita gli astronauti potrebbe essere comunque dismessa entro il 2024: in questo caso, entro dieci anni la Tiangong-3 cinese potrebbe essere l’unico luogo di studio dello spazio attivo e a lunga permanenza per l’essere umano. Uno dei più grandi successi di Battiston da presidente dell’Asi è stato dare all’agenzia italiana un ruolo privilegiato, e di primo piano, nella collaborazione ai voli spaziali con la Cina.

 

Nel 2017, in occasione del viaggio di Mattarella a Pechino, Battiston ha firmato un accordo con il suo omologo dell’agenzia cinese Cmsa, Wang Zhaoyao, che permette lo studio condiviso su molti settori, soprattutto quello delle missioni degli astronauti nello spazio. Un’occasione così importante che in molti, perfino in Europa, avevano storto il naso per il canale privilegiato italiano. I cinesi hanno chiesto all’Italia di contribuire alla costruzione del nucleo centrale della loro stazione spaziale. E le “potenziali ricadute”, si legge sul sito dell’Asi, “potrebbero essere importanti, considerata, da una parte, la posizione di leadership che l’Italia ha raggiunto nel settore del volo umano nell’ambito della realizzazione e dello sfruttamento della Stazione spaziale internazionale e, dall’altra, l’importante programma di volo umano che la Cina sta sviluppando, in particolare con la realizzazione della Stazione Spaziale Tiangong-3”. Non è un caso se lo scorso anno due astronauti europei, il tedesco Matthias Maurer e Samantha Cristoforetti, sono stati i primi a eseguire un addestramento di nove giorni a Yantai, in Cina, con i colleghi cinesi. Gli astronauti europei Maurer, Cristoforetti e Thomas Pesquet (di nazionalità francese) già da anni studiano il mandarino.

È la space diplomacy, e noi siamo in prima fila. Basti pensare che l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari dello spazio extra-atmosferico è oggi guidato da un’altra italiana, Simonetta Di Pippo, astrofisica di fama mondiale ed ex capo del programma di voli spaziali dell’Esa. In un’intervista con Politico pubblicata ieri, la Di Pippo ha detto: “Il ruolo dell’Onu, almeno di questo Ufficio, è cercare di costruire ponti e riunire i protagonisti in modo che facciano tutti parte di questo processo di definizione del futuro.

  

Nel 2017, a Pechino, Battiston ha firmato un accordo con il suo omologo dell’agenzia cinese Cms. Il prestigio diplomatico italiano

Può sembrare generico, ma è esattamente quello che cerchiamo di fare”. E poi: “Lavoriamo sull’uso pacifico dello spazio esterno. Sviluppiamo meccanismi di coordinamento e misure che aiutino alla trasparenza e a costruire fiducia. Cerchiamo di portare tutti al tavolo e aprirci”, ed è per questo, spiega la Di Pippo, che anche l’Onu, oltre all’Esa, hanno iniziato a collaborare con la Cina. Trasparenza, dialogo e crescita. Ecco perché l’Italia, che ha ottimi rapporti con tutte le potenze del settore, potrebbe avere un ruolo strategico e di primo piano. Oltre all’amicizia con Pechino, un altro successo diplomatico dello spazio italiano è la firma, a metà ottobre a Washington, di un memorandum of understanding tra il gruppo pugliese Angel, Virgin Orbit e Virgin Galactic.

 

La capitale dello spazio italiano, infatti, sarà la Puglia: lo scalo di Taranto-Grottaglie è stato indicato dal ministero delle Infrastrutture e dei trasporti come spazioporto, che l’Enac attiverà entro il 2020. Il 6 luglio scorso il presidente dell’Asi Battiston e il ceo di Virgin Galactic George Whitesides avevano già firmato un accordo per sviluppare la collaborazione nel campo dei voli suborbitali, con l’aiuto di varie aziende italiane. Richard Branson, il magnate fondatore del Virgin Group, aveva detto: “Dal Rinascimento alla moderna scienza dello spazio, l’Italia è sempre stata dimora di grandi innovatori e culla di idee rivoluzionarie che hanno plasmato l’esperienza umana. Credo che la visione strategica dell’Italia, che ha portato a questa collaborazione con le nostre società spaziali Virgin, fornirà un vero impulso mentre ci sforziamo di aprire lo spazio a beneficio della vita sulla Terra. Insieme, contribuiremo ad ampliare le opportunità per la scienza, l’industria e i milioni di persone che sognano di poter vivere lo spazio visitandolo”.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.