Steven Chu (foto LaPresse)

Il j'accuse del Nobel liberal americano all'ambientalismo fondamentalista

Umberto Minopoli

Steven Chu e il vulnus del climatismo militante

Steven Chu, Nobel per la fisica, membro della Pontificia accademia delle scienze, ex segretario all’Energia dell’Amministrazione Obama (e padre, ma questo non viene mai maliziosamente ricordato, della ripresa del programma di reattori nucleari negli Stati Uniti) ha rilasciato all’Avvenire di domenica 18 novembre un’intervista di estremo interesse. Per il peso avuto nelle politiche ambientali della presidenza Obama, Chu rappresenta un’icona dell’ambientalismo liberal americano e le sue posizioni rispecchiano un manifesto critico del negazionismo climatico di Trump.

 

L’intervista prende spunto dai roghi che stanno devastando le foreste della California con decine di morti, distruzioni e danni economici notevoli. In questo caso Trump, vestendo i panni dell’ambientalista, ha messo sotto accusa la politica dello stato californiano imputato di deforestazione, trascuratezza e insensibilità alla sicurezza del polmone verde dell’ovest americano. Ovvia e scontata la polemica politica e di partito. Nel caso della California, alle accuse di Trump i democratici hanno pensato di controbattere imputando i roghi ai “cambiamenti climatici”.

 

Steven Chu, cedendo alla ragione politica e di partito, fa sua questa imputazione polemica. Che appare, in verità, un po’ “tirata”. I roghi sono frequenti nell’ovest americano. Ma quanto questo sia dovuto allo sviluppo urbano incontrollato (anche nella ricca California) o a un clima più secco e più caldo, a una maggiore siccità o a effettiva trascuratezza della foresta californiana non è, umanamente, dato sapere. Forse, come sempre, i disastri sono dovuti a un concorso di cause. La polemica tra i democratici e Trump sulle foreste californiane è utile, però, a rilevare un dato: sempre più, e a ogni latitudine, circostanza e contesto politico, eventi e catastrofi naturali estremi e intensi vengono imputati, automaticamente e d’emblée, ai cambiamenti climatici. Rifugiarsi in tale addebito sta diventando una commodity per i politici. Spesso esenta gli esperti da approfondite indagini e verifiche delle cause. Rende facile lo scarico di responsabilità. E soprattutto sta cambiando rischiosamente un’attitudine, persino genetica, degli umani: la disposizione ad adattarsi ai cambiamenti climatici (con le conoscenze, le tecniche, l’ingegneria) piuttosto che denunciarne gli effetti e subirli passivamente. Non è la tesi di Chu, come vedremo, ma nel caso della California vi indulge.

 

Assai più interessante è il ragionamento del Nobel sulle terapie adeguate per fronteggiare i cambiamenti climatici. Il ragionamento di Chu è particolarmente acuto. E scopre un vulnus, direi anzi “il” vulnus, del climatismo militante: il catastrofismo. Che si presenta come inviluppo tra l’ansia del tempo, descritto come sempre scarso e limitato, ai fini di un arresto della corsa verso l’esito dell’irreversibilità dell’aumento delle temperature (più o meno fissato al 2050) e l’immensità dello sforzo necessario preconizzato, dalle istituzioni ufficiali del clima (Onu, Ipcc, governi) per arrestare la deriva: una rivoluzione energetica e dei consumi; la modifica radicale, addirittura, delle nostre abitudini di vita.

 

In soli trent’ anni. E’ questo millenarismo che crea pessimismo, angoscia, sensazione di sconfitta e fiacca la credibilità delle politiche di mitigazione climatica. E le fa apparire poco razionali. Ancor più se riflettiamo sulla “trappola” in cui si è cacciata la politica del clima: limitare e penalizzare le emissioni, specie energetiche, di fonti fossili attraverso divieti, obblighi, sacrifici, incentivi lucrosi e imposizioni fiscali. Una terapia che si è rivelata inefficace (la CO2 in atmosfera, in trent’anni di politiche punitive, non si è mai abbassata), costosa e proibitiva. Per arrivare a un nuovo modello energetico e di consumi, entro il 2035 (data fatidica) occorrerebbe spendere, ogni anno per quindici anni, 2.400 miliardi. Uno sforzo che appare proibitivo ai paesi in via di sviluppo e recessivo ai paesi ricchi. E tutto ciò per contenere l’aumento delle temperature (in un secolo cresciute di 0,9 gradi, questo è il warming di cui parliamo) entro i 2 gradi in più entro il 2100.

 

Come uscire dall’angoscia paralizzante delle politiche climatiche che concentrano tutto sulla penalizzazione punitiva della CO2? Chu sembra suggerire, anzitutto, maggiore sobrietà: liberarsi dalle costrizioni divinatorie dei gradi di temperatura in aumento; continuare a “verificare” (non è una certezza) la genesi antropica dei cambiamenti climatici; svincolarsi dal politically correct che pretende di applicare alla scienza lo schema destra/sinistra. E, soprattutto, recuperare l’ottimismo della razionalità. Da scienziato e politico liberal, Chu sostiene che la risposta ai cambiamenti climatici non è nelle limitazioni. E’ nella tecnologia. Che rovescia, radicalmente, l’approccio pessimista e catastrofista ai cambiamenti climatici. Lo stato della tecnologia e del suo sviluppo nel secolo attuale, sostiene con convinzione il Nobel progressista, è tale da rendere realistico e credibile una mitigazione del surriscaldamento climatico del pianeta “senza sacrificarci poi tanto” e senza alcun apocalittico rovesciamento “della nostre abitudini di vita”, dei modelli energetici e di consumo. Decisamente un approccio opposto al pessimismo climatico, al millenarismo e all’angoscia della deriva catastrofica e irreversibile del clima. L’ottimismo liberal e tecnologico di Chu si fissa anni luce distante dai paradigmi paralizzanti della decrescita e dell’ambientalismo fondamentalista e autoflagellante.

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