Alberi di ulivo eradicati nel 2015, nell'ambito del Piano Silletti contro la Xylella fastidiosa (foto LaPresse)

La Xylella dei pm

Luciano Capone

Contro la scienza e contro l’evidenza. Un’inchiesta che espone i ricercatori alla gogna mediatica è il simbolo di una giustizia infetta

 

 

Qualcuno inizia a pensare che forse sulla Xylella bisognava fare di più. Non solo contro la malattia che sta infliggendo danni irrimediabili gran parte dell’olivicoltura pugliese, ma anche nei confronti dell’inchiesta della magistratura che di fatto ha impedito di limitare la diffusione del batterio. Ora che dopo quattro anni di gogna i ricercatori e i funzionari indagati sono stati archiviati su richiesta della stessa procura di Lecce, qualcuno ammette che forse serviva più coraggio. Siamo alla conferenza “Contro la disinformazione sull’epidemia di Xylella fastidiosa”, organizzata al Senato dall’Associazione Luca Coscioni, che riunisce un gruppo di scienziati per sgomberare il campo dalle teorie del complotto e dalle pseudocure indimostrate che in questi anni hanno inquinato il dibattito. Tra i relatori ci sono membri dell’Accademia dei Lincei, la più prestigiosa società scientifica italiana che tre anni fa pubblicò un “Rapporto Xylella” in cui veniva confermata la correttezza del lavoro dei ricercatori indagati e veniva duramente criticata l’inchiesta della magistratura, basata su un metodo antiscientifico. Il Foglio, all’epoca, anticipò le conclusioni del documento, ma poi nella pubblicazione ufficiale le critiche alla magistratura sparirono.

 

  

 

Chiediamo ora al professor Francesco Salamini, già direttore del Max-Planck-Institut für Züchtungsforschung di Colonia, che coordinò quel gruppo di studio, perché quelle critiche furono rimosse e se rimuoverle fu una scelta opportuna. “In effetti fu un errore. Ma per rispetto dello statuto e della democrazia dell’Accademia nazionale, il documento è passato attraverso un’approvazione dei membri a classi riunite e da lì è uscito il testo finale. La democrazia ogni tanto pone dei limiti alla chiarezza”. E in effetti quel testo, elaborato da Salamini, Roberto Bassi (docente di Fisiologia vegetale all’Università di Verona) e Giorgio Morelli (primo ricercatore del Crea) era molto chiaro: “Ci si chiede come sia stato possibile intervenire nell’attività scientifica, fino al punto di sequestrare i pc di professori e ricercatori. Il gruppo non può che essere solidale con i cinque ricercatori nel ritenerli colpiti nella coscienza di essere liberi di conoscere e scoprire il vero delle cose”, scrivevano i Lincei, rivendicando la libertà di ricerca scientifica anche in nome della propria storia, visto che tra i soci dei Lincei c’è stato anche Galileo Galilei, incarnazione della ricerca umiliata. E ancora: “La costruzione logica descritta dalla procura non è sostenuta da dati sperimentali”. Perfino i periti scelti dai pm per supportare l’accusa “sono fra gli autori di una pubblicazione che conferma la tesi dei ricercatori indagati”. Queste parti sono state omesse, un po’ per “evitare conflitti istituzionali” e forse nella speranza di un ravvedimento dei pm alla luce dell’evidenza scientifica.

 

Il professore Ernesto Carafoli, presidente della Commissione Ricerca dell’Accademia dei Lincei, fa autocritica: “L’atmosfera è cambiata. Sono convinto che se dovesse capitare oggi una cosa del genere, il documento sarebbe pubblicato in toto. Ma in ogni caso l’omissione delle critiche non ha cambiato il senso del documento, che è tutto lì, anche se non parla della magistratura”. E il senso è che i ricercatori si sono comportati correttamente, e se meritavano qualcosa erano i complimenti e non certo di finire nel registro degli indagati. Mentre i magistrati, che li accusavano di aver diffuso la malattia, esprimevano tesi prive di qualsiasi fondamento scientifico. Un fenomeno, quello delle entrate a gamba tesa della magistratura nel campo della ricerca scientifica, che è stato evidenziato con preoccupazione durante il convegno da un filosofo della scienza come Gilberto Corbellini.

   

Ciò che però è più strano in questa vicenda non è tanto che chi ha difeso gli indagati si rimproveri di non averlo fatto abbastanza o con la forza necessaria, ma che chi li ha accusati ingiustamente non faccia un minimo di autocritica sugli effetti prodotti dalla propria inchiesta, sia rispetto ai singoli individui sia rispetto alla collettività. Perché l’intervento della procura di Lecce, con il sequestro degli ulivi e le conseguenti dimissioni del commissario per l’emergenza Giuseppe Silletti, ha portato alla sospensione del piano di contenimento, concordato con l’Efsa e l’Ue, per evitare l’espansione nel continente e nel Mediterraneo di un pericoloso patogeno da quarantena. E nel frattempo la linea della Xylella è salita sempre più a nord, attraversando le province salentine, seccando gli alberi, trasformando gli uliveti in foreste pietrificate, e adesso punta verso Bari e rischia di espandersi in tutto il Mediterraneo.

È vero che la responsabilità è anche della politica, con il M5s e il governatore pugliese del Pd Michele Emiliano, e dei mezzi di informazione (in prima linea il Fatto quotidiano) che a lungo hanno negato che la Xylella fosse la causa del disseccamento degli ulivi. Il contesto culturale sembra quello de “Il medico e lo stregone”, il film di Mario Monicelli, ambientato in un paesino del sud nel dopoguerra, in cui le istituzioni contrastano il medico Marcello Mastroianni e stanno dalla parte del “guaritore” Vittorio De Sica, che si approfitta del clima di ignoranza e superstizione. Ma ci troviamo nell’Italia del 2019, di fronte a una bomba ecologica che, di fatto, la magistratura ha impedito di provare a disinnescare. In questi anni di indagine, mentre la Xylella avanzava e faceva il suo orrendo lavoro, l’ex capo della procura di Lecce Cataldo Motta metteva in dubbio sui media la pericolosità del batterio sostenendo che gli ulivi potessero essere curati con la potatura e tanta acqua. Affermazioni prive di riscontro scientifico.

   

  

Nessuna autocritica su questo, dicevamo. Nemmeno un “tante scuse ci siamo sbagliati”. Figurarsi. Anche il decreto di archiviazione del gip, emesso su richiesta delle pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci, contiene, malgrado tutto, giudizi infondati e ingenerosi sugli indagati. È come se la sentenza di archiviazione viaggiasse su un doppio binario, fornendo materiali per due tribunali, uno giudiziario e l’altro mediatico. Sul primo fronte, dicevamo, il gip di Lecce fa l’unica cosa possibile, tanto le prove erano inesistenti e i reati campati in aria: archivia tutte le accuse (diffusione colposa di malattia delle piante, inquinamento ambientale, falso materiale e ideologico in atti pubblici, getto pericoloso di cose, distruzione o deturpamento di bellezze naturali). Mentre sull’altro fronte, il decreto di archiviazione fornisce tanto materiale fangoso da riutilizzare contro i ricercatori prosciolti nel processo mediatico. Il loro comportamento sarebbe stato caratterizzato da negligenza, pressappochismo, ritardi, omissioni, falsità e “incredibile sciatteria”. Questi sono i giudizi riportati dai pm e condivisi dal giudice. Quindi è come se la sentenza non sia servita a prosciogliere gli indagati, ma ad assolvere gli inquirenti dall’aver avviato e sostenuto per anni un’inchiesta che non ha trovato reati e che invece ha prodotto molti danni all’agricoltura e all’ecosistema pugliese.

   

Il problema però non è tanto questa forma di autoindulgenza e forse di difesa corporativa che potrebbe persino essere umanamente comprensibile. Il punto critico sono le considerazioni senza alcun fondamento scientificoquando non palesemente falseche i magistrati fissano sulla carta di una sentenza. Innanzitutto il provvedimento è fondato su un’enorme contraddizione logica: da un lato accusa i ricercatori per “l’incredibile ritardo” nell’affrontare il disseccamento degli ulivi e dall’altro continua a mettere in dubbio che sia la Xylella a causare la malattia. Su questo punto il gip Alcide Maritati che “condivide integralmente l’iter ricostruttivo fattuale e quello logico giuridico” formulato dai pm, scrive che “ancora oggi non vi è chiarezza scientifica né sulla piena conoscenza del fenomeno naturale, né sulle cause e, tanto meno, sui rimedi”. Ma come ha scritto sul Foglio Enrico Bucci, che è professore in Systems Biology alla Temple University di Philadelphia, questa è una affermazione che “lascia letteralmente esterrefatti”, perché “almeno nove diverse pubblicazioni scientifiche, fatte da gruppi di ricerca diversi in tutto il mondo, su riviste scientifiche peer-reviewed” affermano che la Xylella fastidiosa è stata trovata su ulivi che manifestavano sintomi di disseccamento. E alle stesse conclusioni giungono l’Accademia dei Lincei (“l’agente causale della malattia è Xylella fastidiosa, una conclusione che abbiamo accettato come non più discutibile”) e l’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (“la Xylella fastidiosa è responsabile della malattia che sta distruggendo gli olivi nell’Italia meridionale”).

  

Questa, in accordo con la comunità scientifica, è la posizione dei ricercatori indagati che sono stati i primi a caratterizzare geneticamente il batterio e a fornire dei test di patogenicità. Su quali basi la procura mette in dubbio questi risultati così consolidati? L’operazione, per metodo e spregiudicatezza, è incredibile. I pm scrivono di aver letto un articolo non scientifico, uscito su Micromega prima della pubblicazione dell’articolo scientifico degli indagati, che mette in dubbio preventivamente l’attendibilità della correlazione tra Xylella e malattia degli ulivi. L’articolo è del “prof. SILOS LABINI”, scrivono i pm, che però non è un professore e non è neppure un biologo, ma un astrofisico (che si chiama Sylos Labini, con la Y e non con la I), quindi non proprio un esperto della materia. In ogni caso, dopo la pubblicazione scientifica degli indagati, i pm contattano l’astrofisico: “Raggiunto telefonicamente, questi confermava i suoi dubbi”. Quindi una telefonata di un laureato in fisica che scrive su Micromega una bocciatura preventiva, e non una consulenza tecnica di uno scienziato che pubblica su riviste scientifiche, è sufficiente secondo pm e giudici a confutare tutto ciò che afferma la comunità scientifica internazionale.

  

 

In un altro passaggio i magistrati fanno un’altra operazione ancora più sconcertante. Se da un lato si mette in dubbio che la Xylella causi il disseccamento degli ulivi (un po’ come chi nega che l’Hiv causi l’Aids – e guarda caso Beppe Grillo ha sostenuto entrambe le cose), dall’altro si sostiene l’inefficacia del piano di contenimento del batterio elaborato da alcuni degli indagati in accordo con le autorità italiane ed europee. Ebbene, i pm citano una frase “del prof. Alexander Purcell dell’università di Berkley”, pronunciata in un workshop dell’Efsa: “Non fate il nostro errore: contro la Xylella gli abbattimenti non servono a nulla”. È un’affermazione pesante, perché Purcell è il massimo esperto mondiale di Xylella. Il problema è che si tratta di un falso. Il professore americano ha sempre sostenuto il contrario, difendendo la posizione degli scienziati indagati, e tra l’altro lo ha fatto proprio in un articolo scritto per il Foglio prima del decreto di sequestro, quindi a disposizione della procura. Non c’è alcuna traccia sul sito dell’Efsa di questa affermazione di Purcell. Ma se questa frase non si trova da nessuna parte, qual è la fonte della procura? E’ un articolo del blog “videoandria.com”, che però riprende solo un comunicato della parlamentare del M5s Rosa D’Amato che attribuisce quella frase al prof. Purcell. I pm copiano quel comunicato, con errore ortografico incluso: non esiste alcuna “università di Berkley”, il nome dell’ateneo californiano è Berkeley. Non è quindi una fonte diretta.

 

Sul Foglio già il 29 dicembre 2015 scriviamo che si tratta di un colossale errore, dovuto a un metodo d’indagine sciatto e superficiale. Poche settimane dopo è proprio il prof. Purcell, intervistato da “Italia Unita per la Scienza” a negare quella frase: “La frase della D’Amato attribuita a me è completamente falsa”, dice in modo netto. La smentita di Purcell è talmente chiara che anche il blog “videoandria.com” rimuove quell’articolo dal sito. Ma nonostante la sconfessione di Purcell e la rimozione dal sito, dopo tre anni quell’affermazione (con il relativo link defunto) viene riportata dai pm in una sentenza come prova delle proprie tesi. È singolare se si pensa che i pm hanno consultato, non si sa a che titolo, un astrofisico mentre non hanno pensato di contattare il prof. Purcell. Ancor più sorprendente è che nell’archiviazione i magistrati non citino l’unica consulenza tecnica che hanno commissionato, i cui autori, come affermano i Lincei, confermano “le tesi dei ricercatori indagati”.

 

Troppo spesso si dimentica che, oltre alle prove di accusa, il pm ha il dovere di trovare anche elementi a discolpa degli indagati. In questo caso gli elementi a discolpa erano talmente tanti e ben evidenti, che per i magistrati dev’essere stato molto complicato scansarli o riuscire a non vederli. Sulla ricerca della prova e sulla dimostrazione di una tesi, il metodo scientifico e quello giudiziario sembrano distanti anni luce.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali