Tutti parlano di cambiamenti climatici. E sottovalutano il sole
Il riscaldamento globale non è solo colpa dell’uomo. Il prof. Scafetta ci spiega perché vale la pena osservare l’attività solare
Nicola Scafetta, fisico dell’atmosfera, è uno degli scienziati di cui una certa vulgata sui cambiamenti climatici postula la non esistenza. Autore di oltre 200 pubblicazioni e due libri è uno studioso, tra Stati Uniti e Italia (è professore associato a Napoli) di sistemi complessi e fisica statistica applicata alla climatologia. A differenza di quel che crede chi afferma “l’unanimità della scienza” sui modelli e le ipotesi previsionali dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) dell’Onu, Scafetta è tra gli studiosi (migliaia, per la verità) che, in università, centri di ricerca, libri e riviste scientifiche, discutono i modelli IPCC. Spesso opponendo ipotesi, calcoli, conclusioni e modelli che li modificano e correggono. Ad esempio: i modelli IPCC suppongono, nei loro calcoli previsionali, determinate temperature medie (dell’ultimo secolo in particolare) su cui fondano ipotesi predittive sul futuro. Il professor Scafetta, nel 2013, mettendo a confronto i dati IPCC con quelli delle rilevazioni satellitari e degli studi sulla ciclicità climatica, è giunto a modelli che correggono, significativamente, le previsioni IPCC. La scienza, tantomeno quella sul clima, non procede per (impossibili) assunzioni “unanimi”. Specie in chiave di futuro e di previsioni.
C’è un dato accertato, afferma il professore, perché frutto di rilevazioni scientifiche strumentali: la Terra si è riscaldata di circa 0,9 °C dal periodo preindustriale, a partire cioè dal 1850. Su questo non ci piove. Alcuni modelli, noti come “General Circulation Models”, adottati dall’IPCC, attribuiscono il riscaldamento quasi esclusivamente all’emissione dei gas serra atmosferici. Su tali modelli è stata formulata la teoria, cosiddetta, del “riscaldamento globale antropico”, Anthropogenic Global Warming Teory (AGWT), la quale imputa a emissioni in eccesso di CO2, dovute all’uso crescente di combustibili fossili, la responsabilità del riscaldamento. È veramente corretta questa attribuzione?
Fateci caso: la forzante CO2 mal si accorda con le serie climatiche del passato. Parla il prof. Scafetta, fisico dell’atmosfera
Il professor Scafetta ci dice che il problema fisico di questo contributo antropico è, in realtà, ancora da determinare nella sua effettiva e reale consistenza. La disciplina specifica degli studi del professore riguarda, ad esempio, la relazione tra l’attività del Sole e la variabilità climatica. C’è una stranezza che chiediamo a Scafetta di chiarirci: come mai il Sole, il motore del clima, viene nei modelli AGWT trascurato come possibile forzante del riscaldamento? In realtà, precisa il professore, i modelli climatici includono l’attività solare come uno dei forzanti del sistema climatico ma la minimizzano. Essi, infatti, considerano solo le variazioni della luminosità del Sole (la quantità di energia emessa dall’astro ogni secondo). Invece, il sole può influenzare il clima, e in modo persino più significativo, attraverso altri forzanti. Primo fra tutti: la forza dei suoi campi magnetici (quelli comunemente noti come cicli delle macchie solari). Essi modulano il flusso di raggi cosmici (provenienti anche dallo spazio profondo) che penetrano l’atmosfera.
E insieme ad altri possibili forzanti corpuscolari, influiscono, direttamente, sulla copertura nuvolosa della Terra inducendo cambi climatici. Si dà il caso che nessuno sappia, ancora, perfettamente come e quanto abbia inciso questo fattore magnetico. Non si sanno ancora, ad esempio, modellare sufficientemente le nubi (lo faceva notare, sul Foglio, anche il prof. Franco Prodi). E inoltre: poco si sa su come sia esattamente evoluta, negli ultimi secoli, la stessa luminosità solare. Eppure, i modelli climatici hanno scelto di minimizzarne, sottostimare l’incidenza nei calcoli. Discutibile. Soprattutto perché, insiste Scafetta, tante serie climatiche del passato suggeriscono il forte contributo solare ai cambiamenti climatici. Perché per la nostra epoca no?
È, dunque, ragionevole supporre una possibile sovrastima nei modelli degli effetti della CO2? Ovvio, risponde il professore, che un aumento dei gas serra in atmosfera induca un riscaldamento. Ma non, come si fa credere, in modo semplice e automatico. La sensibilità climatica a un aumento di CO2 ha margini di grande incertezza. Ad esempio: si ipotizza, nei modelli AGWT, che un raddoppio di CO2 atmosferica – dai 300 ppm del 1900 a 600 ppm (oggi siamo a 410 ppm) nelle proiezioni per il futuro a tassi inalterati – possa indurre un riscaldamento globale tra circa 1 e 5 gradi centigradi. Questo parametro è noto come “sensibilità climatica all’equilibrio”. Perché però questo margine di incertezza, questo gap previsionale?
Il ciclo millenario di attività solare spiega coerentemente il riscaldamento osservato degli ultimi due secoli
In realtà, se escludiamo il contributo solare, osserva Scafetta, i conti rischiano di non tornare. E ci danno proiezioni future di temperature prevedibili assai più basse nel range di aumento previsto dai modelli. Tali da invalidare, aggiungiamo noi, quegli aumenti ipotizzati che inducono a catastrofismi e cambi irreversibili. L’imbarazzo dei modelli, continua Scafetta, emerge da un semplice ragionamento comparativo. La temperatura media globale, si è detto, è cresciuta di circa 0,9° C dal 1900 e, simultaneamente, la CO2 è cresciuta da circa 300 ppm a 410 ppm. Il sole avrebbe contribuito pochissimo a questo riscaldamento, praticamente, tutto antropico. Se fosse così, però, l’aumento di quasi un grado della temperatura dell’ultimo secolo (la “sensibilità climatica all’equilibrio”, l’aumento calcolato a ogni raddoppio della CO2) non potrebbe essere, quantitativamente, attribuito alle sole forzanti “antropiche”. La CO2 avrebbe potuto contribuire solo per circa 0,3 °C del riscaldamento (0,9 gradi) osservato dal 1900. Dov’è il resto? Un’autentica falla nei modelli climatici “antropici”.
Forte è il sospetto che i valori della “sensibilità climatica” alla CO2, nei modelli AGWT, siano troppo alti. E che altri effetti, quelli solari in primis, siano sottostimati. Questo sospetto, del resto, è ampiamente suffragato dallo studio delle serie climatiche del passato. Tutti i cosiddetti ottimi climatici (quello medioevale di 1.000 anni fa, il periodo romano di 2.000 anni fa, l’Ottimo dell’Olocene tra 9.000 e 6.000 anni fa) si sono ripetuti all’incirca ogni millennio. Tutti sono stati, probabilmente, più caldi del presente ma con un valore della CO2 assai più basso del presente (meno di 300 ppm contro i 410 ppm attuali). La forzante CO2, insomma, mal si accorda con le serie climatiche del passato. Curiosamente, invece, la forzante climatica solare si accorda, perfettamente.
Insomma, l’AGWT non spiega i periodi caldi del passato. Ma non spiega, correttamente, sottolinea Scafetta neppure il presente. Pochi fanno caso alle serie climatiche. Ad esempio: nel secolo del “riscaldamento”, dal 1850 ad oggi, l’andamento del rapporto tra curva della CO2 (aumento costante) e curva delle temperature non è stato, ci informa il professore, “monotonico”. Ma frastagliato. A differenza della CO2, la temperatura ha registrato serie, periodi e cicli diversi: anni di riscaldamento (1850-1880, 1910-1940, 1970-2000), alternati a periodi di raffreddamento (1880-1910, 1940-1970) e una quasi stabilità dal 2000 ad oggi. Sì, avete letto bene: sono circa 20 anni che, senza cadute nelle emissioni di CO2, le temperature medie risultano stabili. L’avreste detto? I modelli AGWT supponevano, invece, un riscaldamento notevole di circa 0,2° C per decennio (0,4 gradi nell’ultimo ventennio) che non ci sono stati. Occorre cautela, insomma, quando si afferma che la “scienza ha validato i modelli del riscaldamento antropico”.
In realtà, molto del riscaldamento osservato dal 1850 richiede, ancora, studio e chiarimenti. Del resto, solo dal 1978 che disponiamo delle stime satellitari della temperatura. Ebbene, molte di tali stime mostrano trend di riscaldamento più “modesti” di quelli esibiti nei modelli climatici. Al professor Scafetta chiediamo di chiudere tornando al Sole. La fisica solare, il rapporto tra cicli di attività della stella (11 anni quelli delle macchie solari, 22 quelli del campo magnetico) e il clima terrestre, è un filone di ricerca astrofisica agli albori. Il sistema climatico più sensibile all’attività solare sembrerebbe quello delle oscillazioni oceaniche, il grande regolatore del clima terrestre. Si tratta, per il rapporto tra clima e Sole, di una fisica complessa: correlazioni di oscillazioni, sincronizzazioni e moti planetari di rivoluzione alla scala dell’intero sistema solare. Il dibattito scientifico sul clima ne verrebbe, completamente, rivoltato.
Già oggi disponiamo, però, suggerisce il professore, di una conoscenza approfondita dell’attività ciclica del Sole (periodi e sotto periodi di massima e minima attività) che, applicati alla storia del clima, fornirebbero indizi e spiegazioni utili, soprattutto, per congetture e previsioni. Specie per il riscaldamento che ci riguarda, quello osservato dal 1900. Noi siamo dentro, spiega il professore, un ciclo millenario dell’attività del sole, fatto di vari sotto periodi e cicli determinati di durata, che raggiungerà la conclusione nel 2100. Come si è già accennato sovrapponendo ciò che sappiamo dei cicli solari e dei loro vari andamenti temporali con la storia del clima dell’ultimo millennio, otteniamo una quasi perfetta aderenza tra cicli del sole e l’alternarsi di cambi climatici (periodi caldi e freddi) registrati nel millennio. Il ciclo millenario di attività solare spiega coerentemente il riscaldamento osservato degli ultimi due secoli. Il ciclo si apre con la fine della Piccola Era Glaciale (1400-1800) con il periodo più freddo (il grande minimo solare di Maunder, del 17mo secolo), quando pochissime macchie solari sono state osservate per più di 50 anni.
La nostra epoca di riscaldamento inizia, di fatto, con la fine dell’ultimo grande minimo solare, detto di Dalton (1790-1830). Da allora l’attività solare è andata generalmente crescendo e questo coincide con il riscaldamento del clima dal 1850-1900 a oggi. Cicli invece più brevi di attività solare e le oscillazioni oceaniche spiegano le modulazioni decennali del clima che i modelli, come abbiamo visto, non riescono a riprodurre. Ad esempio, un ciclo di 60 anni, tra quelli che distinguono l’attività solare – la scienza solare calcola cicli di 2.500, 1.200, 250, 100, 60 e 50 anni circa – coincidente con l’anomalia termica dell’oceano Atlantico, conosciuta come l’Atlantic Multidecadal Oscillation, deve avere contribuito notevolmente al forte riscaldamento osservato dal 1970 al 2000, un riscaldamento che i modelli climatici attribuiscono, invece, solo all’uomo. Insomma, conclude il professore, capire le oscillazioni climatiche e la loro correlazione con i cicli solari è fondamentale per interpretare correttamente i cambiamenti climatici.
Cattivi scienziati