Il grido estremista di Greta manda in cortocircuito anche il mondo liberal
L’icona dell’ambientalismo riempie il vuoto di senso dell’occidente, spiega Gerard Baker, ex direttore del Wall Street Journal
Roma. L’apocalittica orazione di Santa Greta di Svezia dall’ambone dell’Onu ha superato anche l’immaginazione di Gerard Baker, ex direttore del Wall Street Journal e oggi editor at large, che sulle pagine del quotidiano americano aveva descritto l’attivista sedicenne come la reincarnazione secolarizzata di una Teresina di Lisieux o di una pastorella di Fatima, icona giovanissima – e dunque innocente – di una Chiesa ambientalista che ha una sua escatologia (i tempi si chiudono con l’estinzione umana), un suo peccato originale (l’emissione di CO2), suoi strumenti di redenzione (sacchetti riutilizzabili, bike-sharing), predica l’astinenza dalle carni non soltanto i venerdì di Quaresima, impone il rituale settimanale dello sciopero da scuola e può contare sulla Santa inquisizione dell’opinione pubblica. La vibrante omelia sull’imminente estinzione di massa, il futuro rubato, le generazioni tradite e gli “how dare you?” penitenziali hanno portato la rappresentazione religiosa a un nuovo livello, destando perplessità anche fra alcuni insospettabili fautori di una responsabile agenda verde.
“Premesso che la base di un discorso ambientalista ragionevole è scientifica e non dogmatica”, dice Baker al Foglio, “penso che la passione e il fanatismo con cui molti oggi abbracciano la filosofia ambientalista contenga un fervore di tipo religioso. La religione tradizionale è in declino in occidente e il climate change tende a riempire il vuoto di significato che le persone sentono. La salvezza del pianeta offre uno scopo per cui vivere e dà prescrizioni su come vivere: da un punto di vista funzionale ha occupato il posto della religione. E Greta è la santa laica di questa confessione”.
L’inghippo, dice il giornalista britannico che ha diretto per cinque anni il Journal, è che “Greta ha portato nel mainstream l’interpretazione più estrema dell’ambientalismo, quella dell’apocalisse imminente, dell’odio per la crescita economica, dell’estinzione di massa, una versione che molti degli scienziati che invoca a suffragio delle sue posizioni non sposano affatto”. La performance onusiana è stata rivelatrice, secondo Baker, “perché è stata puramente emotiva, non razionale. Ha denunciato un’emergenza esagerandone le proporzioni e distorcendone i contorni. Non è nulla di nuovo: ha ripetuto quello che le frange estremiste dell’ambientalismo dicono da sempre, omettendo che la maggior parte degli scienziati sostiene invece che qualcosa si può fare per combattere i cambiamenti climatici. Il fatto interessante è che lei è sacra, dunque è difficile criticarla. C’è nella sua giovinezza un’idea di inviolabilità e innocenza che rende ogni critica particolarmente perniciosa, quasi blasfema”.
Trollaggi di Donald Trump a parte, alcuni leader si sono avventurati con circospezione su un terreno critico. Emmanuel Macron, che pure l’aveva applaudita con convinzione al Parlamento francese, ha detto che le sue posizioni “radicali” rischiano di “deprimere una generazione”, e non ha gradito l’attacco diretto al suo paese. Il primo ministro australiano, Scott Morrison, ha detto che la retorica della Thunberg espone i giovani australiani a un’“ansia immotivata”. Giuseppe Conte, che a New York si è presentato con le mostrine del populista redento, ne ha fatto una questione di possesso del pianeta: “Greta sbaglia quando dice ‘ci dovete dare il pianeta’. Nessuno lo possiede, nemmeno la sua generazione”. Per Baker, sono indizi del fatto che la passione religiosa che promana da questa figura ha superato non solo l’equilibrata posizione degli scienziati, ma anche quella dei politici liberali con perfetto pedigree ambientalista. “Di fronte alla retorica del ‘moriremo tutti’ e alla maledizione senza eccezioni della crescita, è naturale che i politici liberali si trovino in imbarazzo. L’errore è stato abbracciare all’inizio questa posizione emotiva: adesso è complicato tirarsi indietro e spiegare che per realizzare una seria politica ambientale occorrono scelte ponderate, ed è irragionevole da tutti i punti di vista pensare che diventare carbon free nel giro di mezza giornata sia l’unico modo per salvare il pianeta”, dice Baker.
Uno degli aspetti più rilevanti di questo great awakening ambiental-religiosa è che rimette al centro della scena occidentale un ideale affermativo al quale i profeti adolescenti chiedono di aderire con trasporto, dopo tanto insistere sulla rimozione degli ostacoli alla libertà individuale. C’è qualcosa di novecentesco, in questo ritorno. Questa, per Baker, è la parte “più pericolosa della questione”, perché segnala un passaggio “dal liberalismo tradizionale a un sistema semi-religioso di obblighi e prescrizioni, promulgato da estremisti che hanno sequestrato la battaglia ambientalista raccontandoci che siamo tutti complici di questa apocalisse incombente”. C’è infine un elemento politico non trascurabile. Il fenomeno di Greta e del gretismo fiorisce in un ecosistema fatto di populismi e nazionalismi, dopo una stagione segnata da leadership liberali e da un diffuso disinteresse popolare per la battaglia ambientale. C’è stato un momento in cui la chiesa di Al Gore era piuttosto deserta, ma ora che Trump riporta in auge il carbone, Bolsonaro brucia la foresta amazzonica e Orbán sostiene la crescita demografica, ecco che la passione si riaccende. “Esiste un legame fra l’ambientalismo e la lotta, in generale, alla prospettiva nazionalista”, dice Baker. “Gli attivisti del clima sono globalisti per definizione: la battaglia per il pianeta non ha confini. La loro analisi del problema è inevitabilmente globale, e dunque chiedono che la risposta al problema sia allo stesso livello. Promuovendo le istituzioni internazionali e la governance globale, gli ambientalisti entrano inevitabilmente in conflitto con chi interpreta la politica in senso nazionalista”.
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