Perché sopravvivono le pseudomedicine ottocentesche
I clienti che si sottopongono a omeopatia, chiropratica e fiori di Bach aderiscono a un'esperienza culturale più che medica
Durante la storia dell’uomo sono stati usati innumerevoli trattamenti, creduti efficaci contro le malattie. Un certo numero è stato riconosciuto davvero efficace, su basi scientifiche. Si pensi alla polvere della corteccia di china, usata da metà Seicento in Europa in modi aspecifici come antipiretico, e che da inizi Ottocento fu riconosciuta terapeutica contro le febbri malariche per il principio attivo che contiene, l’alcaloide chinina. Ora, se si capisce come venivano selezionati, cioè mantenuti dai medici quei trattamenti empirici che erano davvero efficaci (ipecacuana, digitale, corteccia di salice), cioè perché quando si è riusciti a studiarli si è visto che curavano, la domanda forse più interessante è: e quelli che non curavano? Ma soprattutto: perché la maggior parte è stata lasciati cadere nel mondo scientificamente sviluppato e alcuni, pochi per la verità, sono rimasti in uso? Nessuno oggi usa più pomate di mercurio per trattare la sifilide o dermatiti, il salasso, i purganti o i revulsivi per quasi tutto, clisteri con fumo di tabacco, sciroppi alla morfina o all’eroina per calmare i lattanti, acqua radioattiva, bere la propria urina, la trapanazione del cranio da svegli per le malattie mentali, l’estirpazione di denti e organi interni per curare la depressione, e così via.
Dietro a rischiosi, brutali o inutili costumi medici c’erano quasi sempre delle teorie, insieme a qualche aneddoto e alla disposizione umana a imbrogliare e lasciarsi imbrogliare, che si sono rivelate false. Ma come mai la falsità di alcune teorie è stata compresa più facilmente della falsità di altre, in assenza di danni causati? Perché cioè l’omeopatia persiste e il mesmerismo è sparito? Perché chiropratica, osteopatia, fitoterapia, fiori di Bach sono tra noi e i trattori di Perkins (dei chiodi metallici conici da appoggiare alla parte malata per togliere l’infiammazione) usati a metà Ottocento negli Stati Uniti, non più? Probabilmente erano pratiche che rispondevano ad alcune aspettative del paziente. In generale, almeno fino alla seconda metà dell’Ottocento, la medicina era un’attività eroica, cioè aggressiva e pericolosa (soprattutto la chirurgia), e l’omeopatia, per esempio, si presentava come una “medicina dolce”. Siccome i medici allopatici, fino a inizi Novecento, non avevano così tanti rimedi più degli omeopati, a volte era preferibile optare per questi ultimi. Inoltre, alcuni pazienti potevano vedere la medicina scientifica troppo distaccata rispetto alla dimensione psicologica o alla costruzione culturale della malattia. Non è un caso che diverse medicine alternative, ma anche non alternative, producono solo effetti placebo: si tratta dell’azione psicofisiologica di stimoli ambientali, come la comunicazione con il terapeuta o specifici rituali, che induce il rilascio di fattori biochimici che producono benessere. Ma non curano alcunché.
Tra le caratteristiche di diverse pseudomedicine che sono sopravvissute, vi è la credenza che ogni vivente sia equipaggiato di una sorta di vis medicatrix naturae. L’idea risale a Ippocrate, ma la coltivano anche i medici delle antiche civiltà. Si tratta di credere che il corpo abbia delle risorse vitali interne in grado di aiutare a combattere la malattia. Questa vis medicatrix naturae funzionerebbe a un livello microcosmico, il corpo, ma sarebbe in comunicazione con il macrocosmo che a sua volta può essere in armonia o disarmonia, sano o corrotto e influenzare attraverso le sue forze il microcosmo. Si tratta di un principio facile da capire e suggestivo.
L’omeopatia, per esempio, si presenta come una forma di medicina che stimola le forme di difesa naturali, che trovano origine nelle forze vitali medicatrici o di autoguarigione presenti in ogni essere vivente. Un esplicito richiamo a Ippocrate. Gli osteopati credono nel corpo come unità, la cui struttura e il cui funzionamento sono integrati in modo tale che esso ricerchi l’autoregolazione e l’autoguarigione, cioè la salute, grazie al mantenimento dei fluidi corporei: la malattia si ha quando il corpo non riesce a ripararsi da sé e il medico deve agire sul sistema nervoso autonomo attraverso la manipolazione di alcune parti del corpo. Anche i chiropratici si fanno guidare dall’idea che il corpo abbia un’intelligenza innata con la capacità di guarire da sé. Idem per quanto riguarda i fiori di Bach, l’agopuntura e la fitoterapia. Che sia questa idea primordiale e vitalista della vis medicatrix naturae che fornisce oggi un vantaggio adattativo alle credenze pseudomediche, in quanto intercettano il finalismo e il vitalismo intuitivi e cognitivamente irrazionali che permeano la nostra psicologia ingenua. Se non abbiamo imparato a pensare in modo critico.
Le medicine alternative o non convenzionali non hanno basi scientifiche. Non ci sono prove della loro efficacia, ed è difficile (in diversi casi impossibile) concepire studi sperimentali dedicati, in quanto la metodologia della sperimentazione clinica implica una standardizzazione (o confrontabilità) dei trattamenti. Peraltro, gli assunti teorici che ispirano le pratiche sono regolarmente in conflitto con i principi della fisica, della chimica e della biologia. I pazienti, però, non giudicano i trattamenti sulla base dell’efficacia clinica, ma per come questi corrispondono ad aspettative culturali, psicologiche e all’esigenza di un benessere personale. Uno studio pubblicato su JAMA (Journal of American Medical Association) un decennio fa circa mostrava che si poteva predire il consumo di queste medicine, oltre che sulla base dei livelli di ansia o presenza del mal di schiena, per l’elevato livello di istruzione (soprattutto umanistica), la creatività culturale, l’adesione a una filosofia olistica e un’eventuale esperienza di trasformazione personale. In altre parole, la maggior parte di chi usa questi pseudotrattamenti aderisce a un’esperienza culturale, più che medica, mediata da precise credenze filosofiche. Che non è ovviamente disposto a cambiare.
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