L'immagine sulla facciata dell'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo (foto LaPresse)

Così è nata la “catastrofe” della Lombardia

Maria C. Cipolla

Un gruppo di medici dell'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo pubblica un appello sulla rivista scientifica Catalyst: “Non si tratta di una crisi di terapia intensiva, ma di una crisi logistica e di salute pubblica. Serve un piano”

Sono nell'epicentro della crisi epidemica, lavorano senza adeguate protezioni per cacciare la morte, dando precedenza nelle terapie intensive a chi ha più possibilità di sopravvivere: li chiamano tutti eroi, ma dovrebbero invece ascoltarli. In un appello pubblicato dalla rivista Catalyst del gruppo New England Journal of Medicine, 13 medici dell'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, cioè i soldati mandati al fronte con le vesti stracciate in quella che tutti si ostinano a chiamare guerra, spiegano che la strategia dell'ospedalizzazione attuata nella prima regione di Italia ha prodotto la “catastrofe” e suggeriscono soprattutto a chi ha ancora tempo che si cambi completamente prospettiva, arginando il contagio negli ospedali, capendo che non si tratta di una crisi di terapia intensiva, ma di una crisi logistica e di salute pubblica, soprattutto mettendo a punto un piano. 

 

Il nostro ospedale – scrivono nel loro j'accuse, un tentativo disperato di aprirci gli occhi che dovrebbe essere letto da ogni cittadino italiano e in primis dai responsabili istituzionali – è “altamente contaminato e siamo ben oltre il punto di non ritorno: 300 letti su 900 sono occupati da pazienti Covid-19”. Raccontano di tempi di attesa di ore, di pazienti anziani che “non vengono rianimati e muoiono da soli senza adeguate cure palliative, mentre la famiglia viene informata telefonicamente, spesso da un medico ben intenzionato, esausto ed emotivamente esaurito senza alcun contatto precedente”. Ma allargano lo sguardo fuori dall'epicentro, vedono gli altri ospedali dei centri più piccoli che si avvicinano “al collasso”, e spiegano che quello che succede nell'ospedale all'avanguardia di Bergamo è solo il primo girone di un inferno collettivo: la situazione nell'area circostante è secondo loro persino peggiore, mentre il focolaio è “fuori controllo” e i sanitari sono diventati vettori del contagio, le comunità sono “abbandonate” e l'emergenza Covid-19 ha messo in crisi o bloccato gli altri tipi di assistenza anche le semplici vaccinazioni e esasperato le situazioni di disagio sociale. Detto in altre parole e molto chiaramente: questa non è come è stata spesso descritta una crisi della terapia intensiva, ma “una crisi di salute pubblica e umanitaria”. E per questo bisogna muoversi esattamente nella direzione opposta di quella intrapresa finora. 

 

Primo: al contrario di concentrare i pazienti negli ospedali, bisogna puntare su tutti gli strumenti e le tecnologie che permettono di aumentare le cure domiciliari, dalla nutrizione all'ossigenoterapia, e rendere più flessibile l'assistenza per esempio con il ricorso alle cliniche mobili e la telemedicina. I  medici di Bergamo chiedono anche di dare la priorità alla protezione del personale sanitario con luoghi e personale dedicato solo alla lotta al virus e di istituire “un ampio sistema di sorveglianza con adeguato isolamento”. Una ricetta che sposa le critiche alla strategia di ospedalizzazione del professore Andrea Crisanti dell’Università di Padova che sta collaborando al progetto di tracciamento e analisi della regione Veneto e che conferma anche la tesi di un altro virologo padovano, Giorgio Palù: “In Lombardia ci sono più persone infettate perché il tasso di ricoveri è del 60 per cento, rispetto ad una casistica mondiale del 15 per cento e a un tasso di ricoveri del 20 per cento nel Veneto”. Un modello possibile per contenere il contagio ospedaliero in Lombardia è stato del resto proposto qui sul Foglio da Michele Usuelli, Enrico Bucci e Marco Cappato.

 

Ma i dottori di Bergamo vanno anche oltre, e qui veniamo al secondo punto che emerge dall'appello: bisogna assistere l'intera popolazione perché questa è una crisi che investe la collettività. “I sistemi sanitari occidentali sono stati costruiti attorno al concetto di assistenza centrata sul paziente, ma un'epidemia richiede un cambiamento verso un concetto di assistenza centrata sulla comunità”, spiegano e denunciano chiaramente che questa consapevolezza è completamente mancata. “Ciò che stiamo apprendendo dolorosamente è che abbiamo bisogno di esperti in sanità pubblica ed epidemie, competenze sulle quali non si è concentrata l'attenzione dei decisori a livello nazionale, regionale e ospedaliero. Ci manca la competenza sulle condizioni epidemiche, che ci guidi ad adottare misure speciali per ridurre i comportamenti epidemiologicamente negativi”. Questo significa anche che servono altri tipi specialisti e, per chi volesse ascoltarli, li elencano,  “scienziati sociali, epidemiologi, esperti di logistica, psicologi e assistenti sociali”, chiedendo pure l'intervento dell'assistenza umanitaria internazionale. 

 

Infine la terza richiesta, ma che è probabilmente la più importante: bisogna avere un piano di lungo termine. Ora la Lombardia non può che proseguire con il blocco che peraltro si è dimostrato efficace nel rallentare i contagi. Ma c'è un ma, perché “si verificherà probabilmente un ulteriore picco, quando le misure restrittive saranno allentate per evitare un grave impatto economico”. Il rischio dunque, se non si inverte strategia e si guarda al lungo – che ci serve visto che dobbiamo guadagnare tempo –, è proseguire nell'oscillare da un estremo all'altro, dalle aperture ai lockdown, con conseguenze ancora peggiori su tutti i fronti, sociale ed economico. È tempo, insomma, di smetterla con la retorica dei caduti per la patria: i soldati al fronte stanno già urlando che siamo di fronte a un'inutile strage. 

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