Il virus che ci perseguita e il ritorno dei delfini
Tutta la retorica dell’ambiente era costruita su un unico dogma: stiamo raggiungendo il livello, mortale per il pianeta, dell’irreversibilità. E invece l’apocalisse è dolcemente reversibile
Guardo e riguardo estasiato l’anatroccolo con i suoi pulcini che entra in una farmacia vuota, godo l’idea felice dei delfini tornati nel mare di Trieste a ricattarci e attirarci come sirene buone, mi piace la corsa del coniglio dove non correva più, e che si deve mai dire dei pesci nella laguna di Venezia tra quei colori d’acqua verde dei canali restaurati che nemmeno un Guardi o un Canaletto o un Bellotto o un Van Wittel? Poi penso, tra consolazione e logica, che la rapidità e la sicurezza di sé del ritorno della natura nel suo incontaminato – che bella parola incontaminato dopo tante fesse “contaminazioni” – penso che quanto abbiamo giudicato irreversibile, quanto ci ha torto il cuore a furia di apocalisse e case che bruciavano, ora, davanti a una dimensione così banale e stravolgente come un’epidemia di influenza con conseguenze “potenzialmente bibliche”, si mostra dolcemente reversibile. Il cielo torna azzurro in un istante. Il mondo non era avvelenato dal male, si direbbe, era solo (e è) orrendamente sporco, e un fermo di qualche settimana, roba da tramortire la nostra idea di civilizzazione e sviluppo, lo ripulisce d’un tratto come per magia, appunto, naturale.
Tutta la retorica dell’ambiente era costruita su un unico dogma: stiamo raggiungendo il livello, mortale per il pianeta, dell’irreversibilità, bisogna battersi contro l’estinzione del pianeta, e invece l’apocalisse è reversibile, specie quando è un rimbombo di paure generiche, furbissime cavalcate wagneriane dei soliti tromboni e di altre melancolie romantiche.
Quelli di noi, pochissimi, che non hanno mai ceduto al ricatto della vita penitenziale in un’ecosfera compromessa con conseguenze millenarie, e compromessa per la colpevole furia di vivere dell’animale-uomo peccatore, ora non vogliono vendicarsi, ma avvertono in modo incoraggiante, promettente, che non è il momento di ripristinare il falso a fronte del vero, il deforme ideologico a fronte del constatabile logico: non sono le emissioni a generare i virus, non c’è uno sfascio programmato e antropogenico della natura alle origini del contagio, quell’animale insidioso e tristo che ci perseguita è il frutto purissimo dell’ecosfera, contamina perché nasce nell’incontaminato, e non provatevi, come state provando a fare, a cercare il collegamento che rimette in discussione l’evidenza con nuove ombre favolistiche e nere, il virus che nasce dallo smog, che dipende dal petrolio, dagli esperimenti di laboratorio, da questa forma insensata e banale che il peccato originale, verità biblica, assume nella sottocultura contemporanea. Aspetto trepidante il momento in cui qualcuno più autorevole di me, uno scienziato cui sia stato comminato magari un premio Nobel, si rivolgerà al mondo stordito dicendo: avevamo pensato di essere i padroni della fine della terra, finisterrae, ci eravamo illusi sul nostro signoreggiare e spadroneggiare, volevamo bloccare il volo dell’acciaio, la versatile mobilità delle macchine, il fumo della civiltà, e perfino la signoria di Gesù Cristo, abbiamo sparso a piene mani la paura di un domani di fuoco, boccheggiante, in cerca di ossigeno, e invece dobbiamo constatare, sia questa almeno la lezione, che bisogna emettere, emettere, emettere per produrre ossigeno ventilatori vaccini, altro che fare sega a scuola di venerdì.