Il Covid-19 e la riscrittura della realtà
L'impreparazione alla pandemia, la paura del presente, le possibilità di ricostruzione quando l'emergenza sarà superata. Parlano gli psicoterapeuti Paolo Baiocchi e Giovanni Di Cara
Fu nel 1972 che George Simenon decise di non scrivere più. Aveva appena finito Maigret e il signor Charles quando annunciò al quotidiano francese 24 heures la sua decisione. Avrebbe posato la penna, le sue dita non avrebbero più pigiato su di una macchina da scrivere. Non che avesse perso la voglia o la vena artistica. Era più che altro una constatazione. “Mi sono reso conto che il mondo di Maigret non esiste più. O almeno non ci so stare al passo”. Fu per lui “complicato prendere coscienza di non avere più solidi punti cardinali grazie ai quali muovermi con la dovuta sicurezza. Non vivo un incubo, è un terremoto della realtà”, scrisse all’amico Jean Renoir. Si palesò in Simenon ciò che cinque anni dopo sintetizzarono in parole e musica Roger Waters e i Pink Floyd in Sheep (contenuta nell’album Animals, 1977): “The look of terminal shock in your eyes / Now things are really what they seem / No, this is no bad dream” (“Uno sguardo scioccato nei tuoi occhi / Ora le cose sono proprio quello che sembrano / No, questo non è un brutto sogno”).
Non era successo nulla di sconvolgente nel mondo esteriore di Simenon, “eppure è cambiato tutto, ogni cosa a tal punto da ritrovarmi completamente spaesato”. Uno spaesamento che si riaffaccia oggi e coinvolge tutti, questa volta per cause esogene, l’avvento di qualcosa che nessuno poteva immaginare, qualcosa di totalitario e inaspettato come una pandemia. Perché il Covid-19 “ci ha gettati in una fase di choc, la nostra mente si trova senza una mappa per poter prevedere cosa può accadere, cosa succederà e come si potrebbe evolvere la situazione. E tutto questo perché il nostro cervello mai si è trovato nelle condizioni di prevedere la possibilità di un simile evento”, dice al Foglio Paolo Baiocchi, direttore scientifico dell’Istituto Gestalt Trieste.
Ci siamo ritrovati catapultati di colpo in un deserto nel quale tutte le nostre conoscenze si sono dimostrate inutilizzabili “e ora tocca assumere la mentalità del cammello, cioè riuscire a muoversi centellinando le energie, rapportarsi di giorno in giorno con ciò che c’è attorno, con quel cambiamento che sembra non esserci e invece c’è. La nostra psiche ha perso la capacità di configurare la realtà nella quale siamo stati catapultati”, continua il professor Baiocchi. In questo nuovo scenario è importante rendersi conto che il ritorno alla realtà che fu non sarà immediato, “ci vorrà molto tempo, toccherà abituarsi a nuove ondate di contagio. È inutile mentire a noi stessi, non ci sarà una data di riapertura e di ritorno a ciò che c’era prima. A segnare la fine della pandemia sarà prima l’individuazione di una cura efficace e poi quella di un vaccino. E quando ci avvicineremo a questo con ogni probabilità assisteremo a un secondo choc collettivo, quando il futuro che non riusciamo a prefigurarci arriverà davvero: man mano che ci abitueremo all’emergenza sanitaria emergerà quella economica e sociale”. È psicologico, dovuto “alla mancanza di contromisure da poter mettere in campo”.
“Il primo disagio che le persone hanno dovuto gestire, dall’inizio di questa pandemia, è stato una sensazione di angoscia, più o meno latente, che ha portato a due tipi di reazioni principali automatiche e opposte: la negazione del problema e il catastrofismo”, spiega lo psicoterapeuta Giovanni Di Cara. “Nel primo caso, la difesa psichica della negazione ha condotto le persone a sottostimare l’impatto del virus, nel secondo, la sensazione di catastrofe imminente, ha portato alla ricerca disperata di presidi sanitari di sicurezza, all’assalto ai supermercati per accaparrarsi il massimo quantitativo di beni di prima necessità, a un’impennata nei livelli di ipocondria. Tutte reazioni assolutamente automatiche che avevano lo scopo di abbassare il proprio livello di angoscia, ma che hanno ottenuto un risultato opposto, almeno a livello collettivo”, sottolinea Di Cara. Le difficoltà di adeguarci al cambiamento, soprattutto in una situazione come quella attuale nel quale in nome della pubblica salute abbiamo subito una drastica riduzione di alcune libertà che consideravamo intoccabili, “ha in certi casi provocato vissuti di frustrazione e impotenza che spesso sono scaturiti o in reazioni rabbiose oppure in emozioni di rassegnazione e stati depressivi”. D’altra parte il coronavirus “ha obbligato le persone a un cambiamento quasi radicale delle abitudini” e ciò ha provocato lo stravolgimento “delle mappe comportamentali e di pensiero. Da un punto di vista psichico ed emotivo ciò conduce al manifestarsi di una sensazione di disorientamento, sia territoriale (lavorativo, professionale, sociale) che affettivo (familiare)”.
In questa stasi della quotidianità “la ricerca di novità nei momenti di reclusione assume un fattore importante”, quasi una necessità. Può infatti “rappresentare una modalità per continuare a non fermarsi. Nel momento in cui un essere umano è immerso nell’azione ha il vantaggio di non sentire pienamente i propri vissuti emotivi”, per questo “mantenendo l’attenzione in un’attività qualsiasi – continua Di Cara – potrà avere un processo di pensiero più calmo, una mente più libera”. Nel protrarsi però di una condizione di isolamento “molte attività legate alla novità della situazione si esauriranno, cominceranno a perdere interesse. Il problema allora diventa il rischio di sfogare un disagio contro le persone che ci stanno accanto. Per questo è necessario mantenere un proprio equilibrio psicofisico, gestendo e contenendo le proprie emozioni di disagio, reggendo il vuoto e la noia”. Qualcosa che si riproporrà, ma in modo opposto, “a tutti i medici, gli infermieri e gli operatori sanitari che in questo momento stanno facendo fronte all’emergenza sul campo. Nel loro caso, sarà necessario prevedere e predisporre degli interventi psicologici da attuare nel momento in cui si fermeranno, in cui l’emergenza sarà finita, perché sarà in quel momento che emergerà e si manifesterà ciò che questa esperienza drammatica ha lasciato dentro di loro”.
Non è però una situazione senza via d’uscita, anzi. Perché ogni problema impone l’obbligo di cercare una soluzione e l’obbligo di cercare una soluzione rappresenta l’opportunità di creare un nuovo futuro, una via da percorrere, magari insperata, per ripartire. “E ripartire, almeno in questo caso vorrà dire rifondare”, evidenzia il professor Baiocchi.
D’altra parte “il lavoro di psicoterapeuta ti insegna che i grandi cambiamenti che portano al rinnovamento di una persona sono figli delle peggiori crisi. E come funziona per il singolo, così accade per una società. Lo sconvolgimento generato da una simile catastrofe impone la necessità di una ricreazione dell’ordinario. Al di là delle difficoltà evidenti, delle perdite di vite e di certezze che abbiamo dovuto subire, esiste la reale possibilità di una ridefinizione della nostra vita, sia interiore che sociale”. Perché questa evenienza possa però portare a un effetto positivo, “gli uomini devono partire da un presupposto tanto semplice, quanto faticoso: la necessità di un processo di rielaborazione degli errori, cioè la capacità di riflettere in modo critico e onesto sulle cause che hanno prodotto uno stato di infelicità o di insoddisfazione”, specifica Baiocchi.
È un percorso complesso, tortuoso, ben simile alla situazione che stiamo vivendo, ma necessario per rendere virtuosa la nuova realtà nella quale ci troveremo, nostro malgrado, a vivere. Anche perché quello che stiamo vivendo non è una guerra e ciò a cui andremo incontro non è una ricostruzione bellica. “Non siamo di fronte a un nemico fisico, che veste un’altra divisa e parla un’altra lingua e quando torneremo a uscire di casa non ci troveremo davanti macerie fisiche. Il coronavirus non l’abbiamo mai visto, è invisibile. E questo angoscia molto di più. Le guerre cambiano i contenitori delle società, abbattono case e palazzi, devastano i territori, la pandemia invece lascia tutto questo intatto. A cambiare è il contenuto”.
E questo contenuto deve essere ancora rielaborato. Ma è in questa rielaborazione che sta la più affascinante delle sfide. Perché il Covid-19 “ha stravolto in poco tempo le nostre certezze. Ha scombussolato in modo radicale ciò che la società aveva creato a livello sociopolitico”. Se negli ultimi anni abbiamo visto uno sgretolarsi del principio di autorità e l’avanzamento di un modello basato sulla convinzione dell’uno vale uno, “l’epidemia ha fatto riaprire gli occhi sull’importanza della scienza, la necessità di affidarsi a degli esperti del settore. Ma la riaccettazione di quello che un tempo si chiamava principio d’autorità, impone anche un nuovo principio di circolarità della conoscenza, che deve partire dalla necessaria ridefinizione delle problematiche più urgenti da affrontare al termine dell’emergenza sanitaria. È per questo che è necessario un riavvicinamento tra il mondo scientifico e i cittadini, serve muoversi assieme per venirne fuori nel miglior modo e nel miglior tempo possibile”, dice il professor Baiocchi.
L’Istituto Gestalt Trieste proprio per questo ha dato vita a un progetto di sostegno gratuito per chi è in difficoltà: colloqui con uno psicologo, un video corso dedicato alla gestione delle problematiche legate al periodo che stiamo vivendo, la possibilità di partecipale telematicamente a un summit con gli esperti del settore. “Il disorientamento nel quale ci siamo trovati è figlio di un cambiamento epocale che pure la scienza, sia essa medica, economica o sociale, si è trovata a subire. Lo scopo del progetto è quello di aiutare le persone, ma anche di aiutare noi davanti a questa nuova sfida. Nessuno ha soluzioni immediate da applicare, ma ciò non ci deve distogliere dal ricercare queste soluzioni. Solo capendo i problemi reali delle persone possiamo trovare il modo di risolverli”, conclude Baiocchi.
Un avvicinamento che può avvenire a distanza grazie alla tecnologia. “È ormai qualche anno che la psicoterapia a distanza, in modalità online, è stata accettata dal CNOP e ha dimostrato la sua efficacia”, sottolinea Di Cara. “Non va commesso l’errore di considerarla un surrogato della terapia vis a vis, anzi. Ha caratteristiche diverse, che possono essere integrate con la seduta tradizionale. Presenta degli svantaggi ovviamente, ma anche dei vantaggi. E non solamente da un punto di vista logistico. A volte la persona in terapia a distanza si sente più sicura, più libera, si vergogna meno, e per un terapeuta è più semplice conoscere la sua umanità, arrivare a capire i problemi”.
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