La forza della scienza e il virus
Il rispetto dei dati (e dei malati) e il ruolo dell’immunologia. La buona scienza è la strada per battere il virus. Parla il professor Alberto Mantovani
“L’immunologia è una delle linee del fronte. Tutto o molto della possibilità di vincere la malattia si gioca nel rapporto tra il virus e il sistema immunitario, come quello che ferma il tumore. Abbiamo ragione di credere che l’80 per cento degli individui che vengono in contatto con il SARS-CoV-2 non si ammala in forza del sistema immunitario, anzi proprio la parte primitiva del sistema immunitario, che è la prima linea di difesa dell’organismo. Per questo il lavoro dell’immunologo è cruciale in questa battaglia”. Il professor Alberto Mantovani, oncologo e immunologo, è direttore scientifico dell’Irccs Humanitas e professore emerito di Humanitas University. E’ considerato uno dei maggiori esperti in questo settore di alta ricerca scientifica, per i suoi studi circa le terapie immunitarie contro il cancro. Non un virologo dunque, ma ci spiega che il lavoro dell’immunologo, con i tempi lunghi necessari alla ricerca scientifica seria, è altrettanto importante di quello dei ricercatori che studiano il virus e dei medici clinici, gli “eroi” che sono stati e sono tuttora in prima linea. Non è uno scienziato di quelli che stanno chiusi nella torre d’avorio del laboratorio, è anche un appassionato divulgatore, un educatore della scienza, ha scritto molti libri. L’ultimo, in uscita in questi giorni da Mondadori, è particolarmente attuale: “Il fuoco interiore” parla del rapporto tra le infiammazioni, la malattia e il sistema immunitario. In questi mesi in cui tutti guardano alla scienza e alla medicina è stato più volte intervistato, ma meno di altri colleghi, bisogna dire. Un po’ per una sua naturale riservatezza, ma soprattutto per il rigore dello scienziato che preferisce far parlare i risultati del suo lavoro: “Data are data”, ci disse come prima cosa tre anni fa, in una conversazione col Foglio, quando il tema d’attualità erano le campagne dei no vax. Cosa pensi dell’epidemia del coronavirus e dei metodi che scienza e medicina hanno messo finora in campo per fermarla è noto. In sintesi: “Ci sono evidenze che il lockdown e il distanziamento sociale – in assenza di vaccino e di farmaci specifici – hanno funzionato, hanno salvato migliaia di vite. Mentre invece non ci sono evidenze che abbia funzionato un approccio diverso”. Quanto al vaccino, ha sempre invitato alla massima prudenza, ci vorranno 18 o più mesi. E ribadirlo con chiarezza non è inutile, ci dice, perché fa parte del rispetto dei malati, ai quali non vanno vendute fantasie senza fondamento.
I dati sono i dati. Una conversazione con il professor Mantovani ha questo, come baricentro di interesse: cosa vuol dire, tanto più nella situazione attuale, essere scienziati? In un momento in cui tutti guardano alla scienza, spesso anche in modo miracolistico, oppure sono pronti a rinfacciare agli scienziati “di non essere nemmeno d’accordo tra loro” (ne ha scritto Angelo Panebianco sul Corriere), qual è il ruolo dello scienziato? Risponde da umanista, Mantovani, che è anche un appassionato di arte e ne fa uso per le sue lezioni agli studenti. Risponde cioè da vero scienziato: “La prima cosa che l’immunologo si ricorda è Socrate: ‘So di non sapere’. Nessuno di noi scienziati, in tutto il mondo, ha tutte le risposte. La prima mossa della scienza è sapere di non sapere. Perciò il primo atteggiamento importante è l’umiltà di fronte ai dati”. Abbiamo fatto tutto il possibile? Siamo stati umili di fronte ai dati? “No – risponde con un lieve sconforto – E’ stato un grave errore non aver preso sul serio i dati che conoscevamo, che provenivano dalla Cina”. Tutti concordano sul fatto che c’è stata, da là, una grave carenza di informazioni. “Ma il dato fondamentale cinese lo conoscevamo: il 10 per cento dei malati finiva in terapia intensiva”.
Spiega il professor Mantovani: “Questo era sufficiente a prepararci alla gravità della malattia. Abbiamo fatto l’errore di sottovalutarlo”. Chi ha fatto l’errore, quelli che parlavano di semplice influenza, i media? Mantovani non è il tipo di persona che s’impanca a giudice. Per rispondere offre un fatto, un dato: “Il Journal of the American Medical Association (Jama), una delle massime riviste scientifiche mondiali, qualche settimana fa ha pubblicato la classifica degli ‘eroi della pandemia’. Al primo e secondo posto ovviamente ci sono l’oculista di Wuhan, Li Wenliang, morto di coronavirus dopo averne denunciato la gravità, e Anthony Fauci, il grande infettivologo che ha tenuto testa a Trump. Ma al terzo posto c’è il nostro Maurizio Cecconi – un giovane di 42 anni, un ‘cervello di ritorno’ come si dice – che è primario di anestesia e terapia intensiva dell’Humanitas e che è stato il primo al mondo a dare l’allarme sulle terapie intensive. Secondo Jama è stato il primo medico che ‘ha guardato dritto in una telecamera e ha raccontato al mondo cosa accadeva all’inizio della crisi lombarda’. Questo significa umiltà e rispetto di fronte ai dati”. C’è un secondo tipo di umiltà – questa parola rara, ma più diffusa tra gli scienziati che altrove – ed è “l’umiltà di fronte ai pazienti”, dice Mantovani. Una responsabilità che accomuna “quelli come me che non operano nei reparti a contatto con la malattia, ma la studiano, e i clinici. Abbiamo la stessa responsabilità. Non va dimenticato che in tante istituzioni, come ad esempio la nostra ma non solo, sono stati i ricercatori che sono andati a fare gli esami di laboratorio, ad aiutare i medici e gli operatori sanitari che, ricordiamolo, hanno pagato un prezzo altissimo”.
Eppure è un sentimento diffuso: c’è chi critica tanto la scienza quanto addirittura l’operato dei medici (l’operato dei sistemi sanitari e della politica è un altro argomento). “Non voglio giudicare, preferisco stare ai dati. Non è vero che gli scienziati non sono d’accordo tra loro. Io mi occupo di immunologia e dialogo costantemente con chi fa ricerca nel mio stesso campo. Ma non parlo per esempio di modelli matematici. Su questo rispetto i dati forniti e i risultati del professor Alessandro Vespignani, che si occupa di modelli matematici applicati alle epidemie. Il problema, e spesso è accaduto, nasce quando immunologi che non lo sono parlano di immunologia. O virologi che non hanno una esperienza specifica parlano di epidemiologia. O studiosi di sistemi sanitari che parlano della diffusione del virus. Questo genera confusione. Ed è una grave mancanza di rispetto per i malati e per i medici che stanno pagando quel grande prezzo”. In che senso è mancanza di rispetto? “Perché diffondere idee o informazioni spesso false, senza alcun riscontro di scienza, è miracolismo che illude i pazienti – ad esempio sul vaccino o su farmaci che in realtà non hanno effetto, come la clorochina, che anzi si è dimostrata dannosa. Ma questo mette sotto pressione anche i medici, che si sentono dire dai familiari dei malati: ma perché non fate anche voi quella cura?”. Come per i no vax, il problema sono sempre le fake news insomma. “E’ evidente che serve una serietà nella comunicazione. E anche da parte della scienza serve parlare con rigore: so di non sapere”.
Per il professor Mantovani, l’unica strada per vincere questa guerra, metafora dolorosa che usa anche lui, è seguire la scienza, ma quella vera, e affidarsi agli esperti veri: non esistono scorciatoie. E adesso a che punto siamo? “Dobbiamo trovare un equilibrio tra la ‘medicina di guerra’ cui siamo stati costretti, in cui abbiamo provato degli approcci empirici, e la necessità del rigore sperimentale, per i farmaci e le terapie. Ma la certezza viene esclusivamente dalle grandi sperimentazioni, di lunga durata, sottoposte a verifiche, come accade sempre. Dobbiamo studiare anche il nemico, il virus, capire se muta. Per ora il virus si è rivelato sostanzialmente stabile, il che è incoraggiante in vista del vaccino. Fondazione Cariplo ha finanziato il sequenziamento di 400 virus ‘lombardi’ e fra poco avremo le analisi dei dati”.
Inutile chiedergli se pensa che le misure messe in campo dal nostro paese siano state le migliori, o se la tecnica empirica del lockdown possa o debba rimanere un punto fisso anche per il futuro. Risponde che “ci sono evidenze di altri paesi che dimostrano che il nostro approccio ha dato risultati. Ma non mi occupo di sistemi e politiche sanitarie, va chiesto ad altri”. Gli si può chiedere però un parere su un giudizio diffuso, quello secondo cui ci siamo mostrati impreparati, anzi gli ultimi della classe. “I dati, purtroppo, dimostrano il contrario, che non siamo stati gli ultimi della classe. Ma la verità è che ci siamo trovati in uno tsunami, una situazione di estrema gravità. La nostra Sanità si è trovata sottoposta a un’emergenza e a una pressione altissime e abbiamo pagato un prezzo. Ma il sistema ha retto. Il sistema degli ospedali innanzitutto. Non dobbiamo mai dimenticarci di quale fosse la situazione in Lombardia e anche altrove un mese e mezzo fa, con la coda delle ambulanze davanti ai Pronto soccorso, le terapie intensive piene e i medici e infermieri allo stremo. Non dobbiamo dimenticare la grande collaborazione che c’è stata fra medici e scienziati di istituzioni diverse”. Poi, ovviamente, ci sono le cose da rivedere e migliorare: “Sappiamo che va migliorata la medicina del territorio e che senza un adeguato sistema di test clinici e tracciamenti non potremo superare la crisi. Ma ora sappiamo di doverlo fare. Occorre proseguire la collaborazione tra ricerca clinica e ricerca scientifica”.
Lei dirige alle porte di Milano una istituzione di cura e di ricerca medica e scientifica di altissimo livello internazionale: una istituzione privata, dopo aver lavorato molti anni all’estero. In passato ha detto che uno dei motivi che l’hanno convinta a rientrare in Italia – dove fare ricerca nelle università è considerato molto difficile – è la grande libertà di lavoro e di efficienza che proprio un’istituzione privata può offrire. Oggi molti mettono sotto accusa proprio la sanità privata. Si dice addirittura che il sistema lombardo è stato troppo sbilanciato a favore degli ospedali privati di alto livello. Qual è il suo giudizio? “Rispondo ancora con un dato. Humanitas non era un ospedale specializzato in infettivologia, ma in poche settimane abbiamo cambiato la nostra natura, aperto reparti Covid. Lo stesso hanno fatto altri ospedali, pubblici e privati. La differenza non è tra pubblico e privato, la differenza dipende dalla qualità delle singole istituzioni. Un altro esempio: la collaborazione sulle analisi dei dati relativi a Covid tra noi e l’équipe del professor Antonio Pesenti, uno dei massimi esperti di terapia intensiva e primario del Policlinico, che è un ospedale pubblico. Serve ancora di più una rete unita che consenta di lavorare insieme tra pubblico e privato di eccellenza”. Ricerca ed eccellenza scientifica, nessuna fuga in avanti, sono la migliore risposta per vincere questa guerra che sarà lunga, dice. Il professor Alberto Mantovani sa di non sapere, ma sa che esiste una sola strada, lontana dai miracoli e dalle forzature di ogni genere. Nel suo lavoro ha una norma, un imperativo etico, inderogabile: “Il rigore è la mia risposta al diritto alla speranza dei pazienti”.
Cattivi scienziati