Abbiamo conquistato il metro. Inteso come distanza al bar o al ristorante in grado di mettere d’accordo tutti: i ministri, i presidenti di regione, i comitati scientifici, gli esercenti, i clienti. E’ una vittoria storica dell’astrazione sulla realtà. Perché il metro, lungo, appunto, un metro, è un’invenzione abbastanza recente nella vicenda delle approssimazioni successive dell’umanità verso la misurazione dello spazio. E casualmente quel metro, inventato e non appreso dall’esperienza contadina o dalle necessità del diritto fondiario o dall’architettura o dal sapere marinaresco, è anche, ci dicono, il limite spaziale del volo pericoloso di un grappolo di droplet umane. Casuale ma efficiente, insomma, e chissà che non ci sia sotto qualche misteriosa ricorrenza naturale, come per la serie di Fibonacci (quella che si ottiene sommando un numero intero al precedente e quindi si sviluppa come 1, 1, 2, 3, 5, 8…) nata a metà del 1300 per divertimento e per calcolare lo sviluppo prevedibile di un allevamento di conigli e poi ritrovata in tantissime proporzioni ripetute in biologia, lo sviluppo dei petali di un fiore ad esempio, e capace di approssimare la cosiddetta sezione aurea, cioè il rapporto dimensionale di riferimento per le costruzioni e per la loro bellezza. E’ una vittoria postuma del filosofo naturale italiano, per quello che poteva significare essere italiano per un agordino cosmopolita del Diciassettesimo secolo, Tito Livio Burattini.
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