La scienza ci salverà
Giulio Giorello rivendicò fino all’ultimo i princìpi del metodo scientifico, il loro insegnamento laico, antimetafisico e progressista. Lasciandoci una lezione preziosa per la lotta al Covid
Arrendersi a un virus per un filosofo della scienza: sa un po’ di beffa. E’ capitato ad altri intellettuali e pensatori. Nell’ultima grande epidemia del Novecento, l’influenza spagnola, la fatalità colse pittori della statura di Egon Schiele e Gustav Klimt, spense Max Weber e il poeta Apollinaire. Artisti, scrittori, medici sono caduti nella pandemia del Corona. Ma, per un filosofo delle scienza, cedere a una “cosa” inanimata, primitiva, elementare, dalle dimensioni insignificanti, sarebbe naturale che sollevi domande, scetticismo, vacillamenti sulla disciplina – la scienza – di cui si è preteso, per tutta la vita, di esaltarne il metodo e le virtù nella galleria dei saperi e della conoscenza.
A Giulio Giorello, filosofo della scienza, epistemologo, matematico e divulgatore il destino ha riservato la possibilità, forse crudele, di interrogarsi e di essere interrogato sul significato di quella coppia retorica: il virus e la scienza. Lo ha fatto in una delle sue ultime interviste, prima della ripresa della malattia. E lì ha tracciato, forse, il più orgoglioso e commovente ritratto di quella scienza che ha sempre sostenuto: senza accenni di ripensamento, senza allusioni a diffidenze, senza concessioni a ridimensionamenti della portata dell’impresa scientifica nella modernità, senza umani cedimenti a quella dolorosa e tragica iperbole esistenziale. La scienza, l’immenso accumulo di sapere e conoscenza umana, sconfitta da una scialba ed esanime entità: un virus. Giorello ha rivendicato, in quell’ultima intervista, il metodo scientifico, la portata salvifica della scienza, il valore del suo insegnamento laico, antimetafisico, progressista, liberatorio. E alla malora il virus: prima o poi sarà sconfitto, dalla conoscenza e dai mezzi razionali del sapere umano: la scienza.
Giorello è stato un filosofo della scienza particolare, originale, sui generis. Siamo il paese di Galilei, il filosofo naturale per eccellenza, colui che ha inventato l’epistemologia, lo studio critico della Natura, la riflessione sul metodo delle scienze, il suo posto particolare nella gerarchia dei saperi e delle capacità dell’uomo di controllare e governare il mondo che lo circonda. Eppure, amava dire Evandro Agazzi, grande storico della filosofia delle scienza italiana, questa disciplina è nata e si è formata in ritardo in Italia. E ha preso corpo solo in un ventennio, quello a cavallo tra gli anni 40 e 50, rispetto alla temperie europea. Quello che da Cartesio e Bacone, pensatori a cavallo tra scienza e filosofia, si svolgerà come un filo continuo nel pensiero di Kant, nel positivismo, nell’empirismo, nella logica, fino alla lezione di Hume e Mill e ai grandi “discorsi sul metodo” del primo Novecento, al “Circolo di Vienna” ispirato da Wittgenstein e incarnato poi da Carnap, Schlick, Neurath e che finirà, nel secondo Novecento, nella lezione di Lakatos, Feyerabend e Popper.
L’Italia dell’umanesimo, dell’idealismo e dello storicismo entrerà solo a Novecento molto inoltrato nella temperie del discorso filosofico sulla scienza. Lo farà con il grande maestro della scuola italiana: Ludovico Geymonat. Sarà lui a ricollegare, idealmente, la lezione di Galilei e della sua “lingua matematica” al neopositivismo europeo, all’epistemologia e alla filosofia della scienza. Lo “spirito del tempo” frustrò la ricerca di Geymonat: l’ostinazione marxista e filosovietica lo portò alla triste e antistorica opposizione al pensiero “liberale” dei neopositivisti. Il più grande tra questi, Karl Popper, imputato da Geymonat come “filosofo ufficiale dell’anticomunismo”, gli rispose beffardamente di essere un cattivo educatore: “Dice ai giovani che vivono in un inferno… Rispetto al paradiso sovietico… Mentre non sono mai stati così vicini al paradiso come nelle società liberali dell’occidente.
Ma Geymonat, paradossalmente, non coltiverà affatto allievi illiberali. Dalla sua scuola emergerà tutt’altro. Con Giulio Giorello, Evandro Agazzi, Enrico Bellone, Salvatore Veca, Mario Vegetti – gli allievi di Geymonat – l’epistemologia e la filosofia della scienza italiane consolidano una forte impronta liberale, segnata da un potente laicismo e anti ideologismo come metodo dell’epistemologia scientifica. Per molti di loro, tra cui Giorello, il riferimento di scuola sarà proprio l’avversario anticomunista di Geymonat: Karl Popper. Il ritardo con cui è nata e si è formata l’epistemologia italiana ha conferito, a essa, una peculiarità. Straordinariamente rappresentata da Giulio Giorello: l’anti scolasticismo e il rapporto stretto con le problematiche della realtà – istituzionale, civile, economica. Niente che assomigliasse all’astratto, lontano, metodologico, meccanico, matematico linguaggio dei neopositivisti mitteleuropei.
Nella copiosa produzione intellettuale di Giorello, alle neuroscienze, alla psicologia, all’antropologia, alle culture “alte” si accompagnava la curiosità per la fantastica ed effervescente cultura “popolare” delle democrazie occidentali. Sconvolse, qualche anno fa, il paludato dibattito culturale con la sua inopinata “Filosofia di Topolino”. In essa le peripezie e le sentenze bizzarre del leggendario mouse di Disney sono descritte come spregiudicate e coraggiose esibizioni di pensiero critico che non hanno nulla da invidiare a Russell, Popper o Heidegger.
Il suo libro definito più importante e famoso, “Di nessuna chiesa”, fu interpretato come difesa del relativismo e opposizione al razionalismo idealista di Papa Ratzinger. In esso, Giorello prende di mira, in modo particolare, l’anti illuminismo di una chiesa che pretende di opporsi alla biologia, alla genetica, alla scienza della vita in nome del no alla “manipolazione della natura”.
Eppure questa suggestione, più che al razionalismo di Benedetto, potrebbe essere imputata alle tesi conservazioniste – la mitologia del creato intoccabile – di certa teologia contemporanea.
cattivi scienziati
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