intervista al neuroscienziato vallortigara
La fine della fiera. Così abbiamo trasfigurato il selvatico
Intelligenti, empatiche, coccolose: le belve ammorbidite e umanizzate. Tra equivoci e retorica, un viaggio nel cervello animale, per smontare alcuni luoghi comuni. Dagli orsi in Trentino alle galline, meno stupide di quanto pensiamo
Cintura, sguardo allo specchietto, chiavi nel quadro. Un giro di polso. Niente: il motore non parte. Riproviamo. Ancora nulla. E così iniziamo a blandire lo spinterogeno, a coccolare la batteria, ad adulare la macchina, sicuri che con un poco di zucchero la biella vada su. E poi a inveirle contro, a offenderla e maledirla.
“La biologia ha attrezzato i nostri cervelli per renderli in grado di interagire con i nostri simili, creature in grado di comunicare con il linguaggio e di provare empatia. E così noi applichiamo questo metodo anche al mondo animale o addirittura agli oggetti inanimati”, dice al Foglio Giorgio Vallortigara, professore di Neuroscienze all’Università di Trento. L'esempio dell'automobile in panne è suo e spiega bene la trappola dell'umanizzazione nella quale la nostra specie cade spesso quando si confronta con il mondo selvatico. La nostra mente è abituata a riconoscere caratteristiche umane anche in esseri che ne hanno di tutt'altro genere.
“C'è stato un cambiamento culturale e scientifico – sostiene Vallortigara, che domenica 30 agosto sarà a Martina Franca al Festival dei sensi – nella maniera nella quale abbiamo iniziato a guardare agli altri animali. Oggi siamo abituati a pensarli come creature senzienti, mentre prima erano considerati pressoché degli automi. Questa trasformazione è dovuta anche al lavoro di chi, come me, ha documentato e diffuso informazioni sul comportamento animale. Ma ho come l'impressione che ci sia stato un 'eccesso di zelo' nel divulgare l'etologia cognitiva. E adesso attribuiamo con troppo poco spirito critico abilità e capacità di discernimento, intelligenza e sentimenti alle altre specie”.
Al nostro cervello capita di riconoscere un sorriso nell'espressione di un delfino o di intuire un senso di tenera pigrizia nei koala abbracciati agli alberi. In realtà l’uno non ha muscoli facciali, perciò la sua espressione è immutabile e l’altro, che non è in grado di sudare, si appoggia ai tronchi per abbassare la sua temperatura corporea nelle roventi estati australiane. In Piccoli equivoci tra noi animali, scritto con Lisa Vozza (Zanichelli), Vallortigara racconta il meccanismo che la nostra mente usa per dare un senso a ciò che ci circonda. Osservando gli altri animali diamo per scontato che abbiano esperienze, percezioni, emozioni e pensieri come i nostri. “Si tratta”, dice il neuroscienziato al Foglio, “di meccanismi biologici: per esempio siamo in grado di leggere alcuni segnali infantili – gli occhi grossi, la testona, la morbidezza – e a questi accostiamo un senso di protezione e tenerezza. Nessuno si azzarderebbe a dire che una zanzara è carina, mentre un pulcino sì. Quella caratteristica di 'carineria', tuttavia, ce la siamo inventata noi umani e su questa base abbiamo addirittura selezionato alcuni animali da compagnia”.
L'esperimento di Dmitry Belyaev ha dimostrato che in soli 50 anni, sotto le giuste condizioni, si possono rendere le volpi argentate dei cagnolini da salotto. Lo scienziato russo, all'epoca vicedirettore di un istituto di ricerca in una gigantesca città della scienza sovietica in Siberia, ha selezionato per anni gli esemplari più docili. Dopo qualche generazione, nella popolazione sperimentale sono cominciati a emergere dei tratti fisici differenti – crani più schiacciati e musi più corti – e comportamenti tipici dei cani, come lo scodinzolare, il guaire e l'abbaiare anche in età adulta. “Oggi – aggiunge Vallortigara – abbiamo idea anche del perché: si tratta di un ritardo nei meccanismi genetici delle cellule staminali, un ritardo dello sviluppo: insomma, questi animali rimangono cuccioli più a lungo. Un processo che la scienza biologica definisce 'sindrome da domesticazione'”.
Non solo: abituati da millenni alla domesticazione biologica, abbiamo trasfigurato il selvatico anche a livello culturale. Per esempio nella forzatura ideologica del “felice ritorno dell'orso”, che fa discutere in questi giorni, ha un peso la messinscena mentale dell'umanizzazione. Divinità per tutti i popoli della galassia uralo-altaica, dai lapponi ai siberiani ai pellerossa americani, l'orso è stato simbolo di violenza, di forza selvaggia e inarrestabile. Ma è anche in grado di stare in piedi, di mangiare con le mani, è propenso al gioco: ha qualcosa di umano. Dalla celtica dea Artio, rappresentata come orsa, trae forse il nome re Artù e i feroci Berserkr vichinghi si dicevano “posseduti” dallo spirito dell'animale. L'orso è passato, nel nostro immaginario, da signore della foresta a tappeto davanti al camino e poi a mascotte dell'ammorbidente. È stato “addomesticato” dall’industria culturale, in un lungo percorso di profanazione del selvatico che parte già durante il Medioevo, quando l’orso perde il significato di fierezza e ferinità per diventare un essere sgraziato, incatenato e fatto danzare in modo grottesco nelle sagre (Michel Pastoureau, L’orso. Storia di un re decaduto, Einaudi). È la fine dell'orso come “fiera”, che in centinaia di anni porterà a quel formidabile strumento di soft power del Cremlino che è il cartone animato Masha e Orso, passando per il Teddy-Bear dei primi del Novecento (il cui nome deriva dal presidente americano Roosevelt), per Buzzati e Walt Disney.
Un'ordinanza firmata oggi dal presidente della provincia di Trento, Maurizio Fugatti (Lega), ha dato il via alla cattura degli esemplari di orso bruno avvistati nei giorni scorsi nei centri abitati di Andalo e Dimaro Folgarida. Eppure, anche ora che gli orsi che hanno ripopolato il Trentino (oggi sono un centinaio) si rivelano animali selvatici e non pupazzetti e aggrediscono le greggi, fuggono dai recinti e – in casi fortunatamente ancora piuttosto rari – attaccano l'uomo, c'è chi fatica ad abbandonare la lettura antropizzante, nella quale la terribile fiera è diventata un tenero peluche. “Ci sono animali – dice Vallortigara – che tecnicamente vengono definiti 'problematici', come M57. Normalmente i plantigradi stanno alla larga dall'uomo, ma alcuni esemplari sono spinti da uno spirito avventuroso ad avvicinarsi ai centri abitati. Si sospetta che c'entrino anche cattive pratiche umane, come nutrirli o lasciare cibo e rifiuti nelle aree che gli animali frequentano. In Canada e negli Stati Uniti, dove la presenza dell'orso è molto più numerosa e l'incontro più frequente, dopo un paio di casi in cui lo stesso esemplare si mostra aggressivo o troppo confidente verso l'uomo, viene abbattuto. È brutto da dire, ma lo si fa nell'interesse generale della convivenza tra le due specie, quella selvatica e quella umana. Naturale che questo si scontri con il vissuto etico, bioetico e filosofico di persone e associazioni. Ma si tratta di una scelta: chi è disponibile ad accollarsi i costi che ha la gestione di aree dedicate alle sole specie selvatiche? Penso che se le associazioni ambientaliste volessero davvero proteggere il diritto degli orsi a camminare per decine di ettari sulle montagne italiane (paradisi segnati anche dalla presenza umana), dovrebbero pensare a una maniera di finanziare questi progetti. È come quando scelgo di acquistare uova da allevamento in gabbia o a terra: la scelta comporta un costo”.
È un po' la logica che sta dietro al dibattito sull'uso degli animali da laboratorio: “Oggi il 90 per cento circa della scienza biomedica viene fatta sugli animali”, dice Vallortigara. “Ma non perché chi lavora nell'industria farmaceutica sia un sadico, ma perché si accetta che per salvare molte vite umane se ne sacrifichi qualcuna di altre specie. Per altro i laboratori che usano animali sono molto costosi, se davvero ci fosse una soluzione più vantaggiosa Big Pharma accetterebbe volentieri la trasformazione”. In uno dei suoi testi, Vallortigara faceva l’esempio del furetto: c’è chi lo tiene in casa come animale da compagnia ed è felice che un veterinario lo abbia privato delle sue ghiandole, così non ci saranno odoracci in casa. Perché allora non dovrebbe essere tollerabile farlo in un laboratorio per studiare e prevenire una pandemia umana? E ancora: è lecito privarlo delle ghiandole per capire come riconosce i propri simili tramite segnali odorosi? Il neuroscienziato spiega che spesso la risposta dipende da come consideriamo le diverse specie animali, da come intendiamo la loro capacità di provare empatia o da quanto stimiamo evoluta la loro intelligenza. “Ma l'intelligenza è composta da molte abilità. E ci sono alcune abilità nelle quali gli animali sono di molto superiori all'uomo. Una nocciolaia di Clark, una specie di corvo grigio che va ghiotto per i pinoli, durante la bella stagione può nascondere decine di migliaia di semi in migliaia di nascondigli diversi e sa esattamente come recuperarli durante l'inverno. La sua memoria visuo-spaziale, con la quale crea una mappa topografica, è decisamente superiore a quella di un essere umano, che se nascondesse migliaia di oggetti in un territorio altrettanto vasto sarebbe in grado di ricordare la posizione precisa solo di una decina scarsa di essi. Un altro esperimento ha dimostrato che a un piccione bastano quindici giorni di addestramento per trasformarsi in un ottimo radiologo e riconoscere masse sospette all'interno di immagini digitalizzate di mammografie. Cosa che un essere umano apprende in anni di studio e dopo una lunga pratica”. Insomma, ogni intelligenza animale è specializzata in alcuni compiti che consentono alla specie di sopravvivere più a lungo e quindi riprodursi di più. Sono le basi della teoria dell'evoluzione.
Nel suo La mente che scodinzola, Vallortigara sostiene sia sbagliata la concezione secondo cui esisterebbe una sorta di scala delle creature viventi, con ai gradini più bassi quelle meno complesse ed evolute (con i cervelli meno complessi ed evoluti). Per la biologia questo non ha senso: tutte le specie viventi sono egualmente evolute rispetto ai loro progenitori ancestrali. Così come andrebbero rimossi alcuni stereotipi sulla complessità dei cervelli. “Prendiamo – dice lo scienziato – un uccello e un mammifero con cervelli più o meno delle stesse dimensioni: un pappagallo cacatua e un galagone, una proscimmia africana. Abbiamo osservato che il cervello dell'uccello ha una densità di neuroni doppia rispetto a quello del mammifero. I delfini possono avere un cervello molto grande e siamo abituati a credere che abbiano un'intelligenza superiore. Le loro cellule neuronali, però, sono molto sparse tra le tante cellule gliali, che funzionano anche da isolante termico, per proteggere il cervello durante le immersioni in acque freddissime. La grandezza del loro cervello, secondo alcuni studiosi, dipenderebbe quindi dalle necessità ambientali e non sarebbe un riscontro diretto di maggiore capacità intellettiva”.
Oggi, prosegue il neuroscienziato, va di moda l'idea che gli animali siano empatici, che siano in grado di mettersi nei panni dei loro simili. “Alcuni esperimenti mostrano che determinate specie animali aiutano i loro compagni in difficoltà. Ma se nel caso dei ratti da laboratorio che liberano i loro simili da una gabbia si parla di empatia, in uno studio sulle formiche del deserto – decisamente meno facili da umanizzare – si cita solo il rescue behaviour, un comportamento cooperativo di aiuto. Con che criteri dovremmo decidere quali animali provano empatia e quali no? È sperimentalmente molto complicato. Forse non dovremmo ragionare su cosa gli animali fanno ma su cosa non fanno: i loro cervelli sono in grado di distinguere una situazione da un'altra e agire di conseguenza? Sanno leggere gli stati mentali dell'altro individuo?”.
cattivi scienziati
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