cattivi scienziati
Il test sulle scuole è fallito
Tenere le aule aperte sarebbe possibile. Ma è ora di ammettere che non abbiamo le forze per farlo
Alcune affermazioni sul nostro futuro possono influenzare il futuro stesso, alterando il nostro comportamento in modo tale che esse risultino vere. Si chiamano “profezie autoavveranti”. La scuola, da quel che abbiamo potuto valutare insieme alla professoressa Antonella Viola, al professor Guido Poli e al Patto trasversale per la scienza, non è risultata nelle prime cinque settimane un luogo di contagio peggiore degli altri; lo dicono i dati sull’incidenza normalizzata nelle scuole della provincia di Bergamo, Milano e del Lazio. Per Bergamo, i dati sui tamponi eseguiti nelle scuole mostrano che non vi è stato sotto-campionamento rispetto alla intera regione Lombardia.
Quindi questi dati vogliono forse dire che le scuole sono il posto più sicuro del mondo? No di certo: dimostrano che esse sono ugualmente permeabili al virus, come le case e il resto della società – del resto, uno studio pubblicato all’inizio del mese in Friuli Venezia Giulia aveva dimostrato che solo il 10 per cento dei contagi nella fascia di età 0-18 anni era avvenuto con sicurezza nelle scuole (con un 30 per cento non tracciato) per cui, evidentemente, nel periodo considerato il virus era stato portato nelle scuole di quella regione da soggetti che si erano contagiati altrove. Tuttavia, l’analisi dei dati retrospettivi può predire cosa succederà anche in futuro solo se le condizioni non cambiano. In particolare, come abbiamo scritto insieme al Patto trasversale per la scienza, è necessario che nelle scuole si continui con distanziamento, mascherine e soprattutto con diagnostica e misure appropriate di isolamento quando si rinvengono casi positivi. Al contrario, sto ricevendo moltissime segnalazioni da regioni come Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto del fatto che, anche quando sono scoperti positivi, non si procede a effettuare i tamponi sui compagni, né dopo il riscontro del primo caso positivo, né in uscita da eventuali quarantene; non si suggerisce la quarantena in modo uniforme, ma sulla scorta di decisioni che appaiono casuali; non si impone l’uso di mascherine neppure agli insegnanti, che vengono spesso avvistati nei corridoi e nelle classi senza alcuna protezione individuale; e così via, imprudentemente, violando le norme e il buon senso.
Se le condizioni nelle scuole sono queste – e non ho motivo di dubitare delle segnalazioni che mi giungono – è chiaro che diventeranno un luogo di contagio, avverando la profezia di chi a esse addebita la ripresa del virus a ottobre (ingiustamente, perlomeno secondo i pochi dati finora disponibili). Se le condizioni sono queste, allora dobbiamo ammettere che stiamo chiudendo le scuole in via precauzionale, non perché non esisterebbero i metodi di tenerle aperte, ma perché le nostre forze sono assolutamente insufficienti a utilizzare quei metodi. In particolare, poiché il metodo dell’analisi in pooling permetterebbe di superare le limitazioni nel numero di analisi eseguibili ogni giorno, è chiaro che il collo di bottiglia sta nella possibilità di raccogliere i campioni, che al momento prevede ancora degli operatori esperti (qualunque sia l’analisi successiva), di cui più la crisi avanza e minore è la disponibilità. L’impasse è superabile solo con nuovi sistemi diagnostici che siano eseguibili da chiunque, come quelli salivari, che con diverse modalità sono in prova sia in Veneto sia nel Lazio; e a questo punto bisogna tenere presente che, anche se dovessero essere meno sensibili del tampone tradizionale, nel complesso è meglio effettuare un test che non effettuarne affatto, perché perdere il 10 per cento dei positivi totali testando tutti con uno strumento meno accurato è preferibile a perderne il 90 per cento testandone solo una piccola porzione in maniera accuratissima. Pooling, test rapidi, autocampionamento e misure di isolamento appropriate e omogenee sono la chiave per mantenere aperte le scuole: se si procede alla chiusura, con i gravi danni che ciò comporta, non è perché non vi siano strade da tentare, ma perché non si è in grado di fare altro.