spazio okkupato
Come la scienza è diventata strumento di dominio che l'uomo non domina più
"Quando abbiamo smesso di capire il mondo", un saggio di Benjamin Labatut
È passato un secolo, più o meno, e all’improvviso, ma con calma, la fisica quantistica è diventata di moda e di massa. E’ come se l’umanità, attraversando le carneficine del Novecento e i disastri degli ultimi vent’anni, abbia avuto bisogno di prendersi cent’anni in più per illudersi di abitare ancora in un universo tranquillo, newtoniano, dove le cose sono cose, la materia è materia e lo spirito spirito, dove ogni oggetto occupa un unico luogo e si muove a velocità calcolabile. In un mondo dove dalle cause si possono prevedere gli effetti e dagli effetti risalire alle cause. Negli ultimi anni – forse sotto la spinta di film come “2001: Odissea nello spazio”, “Matrix”, “Donnie Darko” o “Interstellar”– abbiamo incominciato a capire che la realtà è immaginaria.
Nel mondo dei libri, i segni sono stati molteplici. Come nel caso dell’inspiegabile successo delle “Sette brevi lezioni di fisica” di Carlo Rovelli, a cui è seguito quello, minore, di “Helgoland”, dedicato a Werner Heisenberg. Un generale sfracellarsi delle categorie narrative – prima e dopo, dell’unità di tempo e luogo, causa ed effetto – ha cominciato a infiltrarsi anche nella narrazione, in alcuni romanzi almeno, come quelli di Rachel Cusk o il bellissimo “1947” di Elisabeth Åsbrink, dove il tempo e lo spazio sono pulviscolo, e l’intero si impone come un collage che non arriva mai a comporsi del tutto. Ma è nei libri sulla fisica che l’universo compatto in cui fino a ieri credevamo di abitare si infrange e, insieme, prende forma.
“Quando abbiamo smesso di capire il mondo” dello scrittore cileno Benjamín Labatut, pubblicato da Adelphi, è un saggio, un romanzo, una serie di racconti sulla scienza moderna, che mischia guerre, colori, veleni e vite illustri di scienziati pazzoidi: Diesbach che inventò il blu di Prussia, Fritsch che “lo trasformò in oro”, Scheele che ne trasse il cianuro e Fritz Haber il gas cloro o il fisico Schwarzschild che ne fu ucciso; i matematici Shinichi Mochizuki, autore di una congettura impossibile da capire, e Alexander Grothendieck, che morì come un barbone imprigionato nell’afasia; e ancora, ovviamente, i protagonisti della rivoluzione quantistica. Einstein, Louis de Broglie, Niels Bohr e soprattutto Werner Heisenberg e Erwin Schrödinger che si scontrarono sulla natura degli elettroni, il primo convinto che fossero corpuscoli, il secondo più simili a onde, fino quando a un Congresso Solvay (Bruxelles, 24 ottobre 1927) gli stessi Heisenberg e Bohr scoprirono che l’elettrone era insieme corpuscolo e onda e che compariva soltanto nell’istante in cui veniva osservato. In quel momento la realtà smise di esistere. Cominciò ad apparire come il risultato un gioco tra osservato e osservatore, in cui chi osserva modifica quello che vede e, per questo, niente può essere davvero misurato. L’universo diventò così sconvolgente che è comprensibile come, per un secolo, l’umanità abbia preferito fare finta di niente.
Labatut scrive benissimo, con un’attitudine mistica che è il suo limite, ma anche la ragione del suo successo. Nel suo libro genio e follia sono indistinguibili, in ossequio all’ideale romantico del genio che squarcia il velo di Maya. Tra le pagine, però, sfilano bellezze e brutture, colori meravigliosi e carneficine, vomito, merda, eventi reali e sogni inventati, inseguendo come in un gorgo la relazione della conoscenza con il male, l’inesauribile bisogno umano di capire e dominare che alla fine, per Labatut, si è ribaltato nel suo contrario, nell’ammissione della propria impotenza. All’interno il titolo appare in forma interrogativa (l’originale era “Un verdor terrible”, in riferimento al verdastro dei fertilizzanti azotati e del gas cloro inventati da Haber). La decisione di Adelphi di trasporlo in affermazione riassume, mi pare, la tesi al cuore del libro: la matematica e la scienza non sono più strumenti di comprensione, ma di dominio che l’uomo non domina più.
Da piccolo quando ero a scuola mi chiedevo se gli oggetti nella mia stanza esistessero ancora quando non c’ero. E molti, aspettando l’esito di un esame medico, si sono sentiti come il gatto di Schrödinger, sani e malati, vivi e morti al contempo. La vertigine della scienza narrata da Labatut consiste proprio in questo: nel dover abbandonare le categorie millenarie con cui ci siamo orientati per millenni, separando anima e corpo, energia e materia, causa e probabilità, per convincerci che tutto, anche noi, ora, siamo campi di probabilità che prendono forma solo se osservati. E’ una conclusione mistica, che spalanca più domande di quante ne chiuda. Ed è una conclusione radicalmente anti illuminista. Kant definì l’illuminismo come l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità autoimposta, cioè dalla convinzione di dipendere da Dio. Labatut sostiene che la scienza ha riconsegnato l’uomo alla minorità, imposta però dagli strumenti che ha saputo creare.
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