Scienza è futuro
La ricerca ci salverà dalla pandemia, ma chi salverà i ricercatori dai miopi di stato?
Non c’è dubbio che il Covid-19 abbia colpito duramente moltissime categorie. Tra queste, la meno citata, in Italia se non altro, sembra essere quella dei ricercatori. Ricordiamo tutti gli applausi dai balconi e gli impegni, più o meno enfatici, a sostenere con forza la ricerca. Ma già dopo alcuni mesi dall’inizio della pandemia arrivavano i primi report che certificavano come molti ricercatori fossero vittima di uno stato di esaurimento (burnout) che lo stesso Oms ha classificato come “sindrome”.
Da un sondaggio effettuato nell’ottobre 2020 negli Stati Uniti su oltre un migliaio di ricercatori si apprendeva che più del 70 per cento dichiarava di sentirsi sotto forte stress (l’anno prima era il 30 per cento) e di aver notevolmente aumentato il proprio carico di lavoro, e quasi il 50 per cento diceva di aver seriamente pensato di cambiare mestiere. Le percentuali erano ancora maggiori se si consideravano le sole ricercatrici. Altri sondaggi compiuti nei mesi successivi hanno dato risultati analoghi, se non addirittura peggiori.
Come è facile immaginare, i soggetti maggiormente a rischio sono le ricercatrici e i ricercatori più giovani, con contratti a termine e progetti che richiedono interazioni e scambi continui. Ciò vale non solo in ambito medico, dove la pressione sui giovani ricercatori è stata altissima, al punto da costringerli a orari massacranti, in condizioni molto spesso disagevoli. Anche in altre discipline, ricercatrici e ricercatori si sono trovati ad affrontare condizioni di lavoro sempre più difficili.
Chi ha poca o nulla conoscenza del mondo della ricerca, accademica ma non solo, probabilmente non sa quale importanza fondamentale abbiano dal punto di vista formativo gli anni del dottorato e quelli successivi post-dottorato. Sono gli anni in cui si comincia a fare ricerca in prima persona, sapendo bene che le possibilità di continuare dipendono dallo sviluppare competenze sempre maggiori e dal produrre lavori sempre migliori. In un periodo come questo, la possibilità di condividere esperienze e risultati è decisiva. Con la pandemia molti laboratori sono stati costretti a chiudere per lungo tempo e la possibilità di partecipare a conferenze, seminari e workshop si è ridotta di molto.
Pensate a un dottorando che era al primo o al secondo anno: di fatto, rischia di finire il suo dottorato senza aver potuto realizzare alcun tipo di ricerca. Lo stesso vale per un post-dottorando. In Italia, come in altri paesi, c’è un limite massimo di rinnovo per le borse post-dottorato di sei anni. Immaginate di aver in mano un progetto da cui dipende gran parte del vostro futuro e vi trovate fermi per uno o due anni.
Qualcuno potrebbe obiettare che ci sono oggi situazioni ben più gravi e che quello delle giovani ricercatrici e dei giovani ricercatori è una questione minore, se non marginale. Senza voler sottostimare i gravi problemi che affliggono il nostro paese, penso che si debba avere piena consapevolezza che stiamo rischiando di perdere una generazione intera di ricercatrici e ricercatori. Non solo perché molti di loro potrebbero smettere di fare ricerca e cercare una nuova occupazione (questo di per sé sarebbe già drammatico per un paese come il nostro che soffre di una carenza endemica di personale nella ricerca). Ma anche perché molti di quelli che, con fatica, riusciranno a riprendere la loro attività, difficilmente potranno maturare le competenze necessarie per una ricerca di qualità.
Che fare? Se non vogliamo arrenderci all’idea di essere un paese senza ricerca, e dunque senza futuro, dobbiamo intervenire quanto prima fornendo alle giovani ricercatrici e ai giovani ricercatori sia un’adeguata assistenza psicologica (come già alcune università cominciano a fare), sia tutti gli strumenti necessari per consentire loro di riuscire a svolgere la loro attività al meglio. Penso, per esempio, all’estensione degli anni di dottorato e di post-dottorato, all’integrazione dei fondi di ricerca in progetti già assegnati e alla creazione di nuovi fondi ad hoc per incrementare il numero dei progetti esistenti.
Questo, naturalmente, solo per cominciare. Deve essere chiaro a tutti che in gioco non c’è soltanto il futuro di una generazione di ricercatrici e di ricercatori. Ne va anzitutto del futuro di tutti noi. Prima lo capiamo, meglio è.
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