cattivi scienziati
L'agricoltura biodinamica e la ricerca, più dannosa che conveniente, di un bene superiore
Cosa c'è di giusto e di pulito in un metodo di produzione che utilizza metalli tossici, che consuma a parità di resa maggiori estensioni di terra e che innalza il costo dei prodotti senza nessun vantaggio dimostrato sulle loro proprietà finali?
In un libro dedicato alla recente pandemia, alcuni antroposofi italiani ritengono di dover sciorinare diverse “considerazioni sulla pandemia di Covid-19 alla luce dell’antroposofia”, scrivendo con linguaggio quasi mistico una serie di assurdità circa, per esempio, il possibile influsso delle posizioni dei pianeti sulle cose di questo mondo e quindi anche sulla pandemia. Logicamente, in questo libretto si rinviene in pieno l’influsso di Steiner, confermando che, lungi da essere ormai abbandonate, le sue solenni corbellerie espresse con linguaggio suadente trovano ancora oggi sviluppo e seguito, contrariamente a chi sostiene che per esempio in biodinamica esse siano state abbandonate.
Dei quattro saggi presenti nel libro, tuttavia, uno merita speciale considerazione perché dedicato proprio alla biodinamica. Intitolato “L’organismo vivente biodinamico. Una risorsa di salute sociale”, esso ha per autore Carlo Triarico, il principale esponente della biodinamica in Italia, ed è interessante perché riassume in poche paginette dirette agli estimatori di quel metodo quelle che sono le principali sue concezioni in merito.
Senza soffermarmi sulle solite affermazioni sul “cibo contadino”, sulla saggezza popolare “segno dell’Io autocosciente” e sulle decantate (ma non provate) virtù organolettiche, economiche ed ecologiche del metodo biodinamico, a me interessa ragionare qui in particolare su una affermazione che l’autore, quasi in conclusione, fa. “Tramite l’agricoltura biodinamica – scrive Triarico – viene rivolta al mondo la domanda se l’economia non possa porsi fini spirituali e perseguire, oltre gli utili, la realizzazione di beni superiori (o almeno la riduzione dei mali maggiori)”.
Emerge, attraverso questa domanda, un chiaro posizionamento della cosiddetta agricoltura biodinamica all’interno di un programma più ampio, che è quello della conversione a una sorta di culto, che si pone fini di “elevamento spirituale”: la credenza, appunto, nella dottrina antroposofica, con tutto il suo bagaglio esoterico e inseribile a pieno titolo nella pseudoscienza quando pretende di utilizzare il linguaggio scientifico e di imitare la forma della scienza.
Soprattutto, si presenta la biodinamica come una particolare dottrina dello spirito che pone domande, anziché fornire risposte; il che, se parliamo di metodi agricoli, cioè di sistemi che dovrebbero provvedere innanzitutto cibo adeguato e salubre, senza devastare allo scopo l’ambiente, appare alquanto stridente.
Ancor più stridente è poi il contrasto con le ragioni per cui si sta invece spingendo la biodinamica, legate a sentire la politica soprattutto alla redditività per ettaro, al riconoscimento di un marchio, insomma in breve alla supposta (ma indimostrata) convenienza economica.
Tuttavia, il punto più interessante riguarda la sottintesa capacità dell’agricoltura biodinamica di promuovere la realizzazione di quei beni superiori, o evitare mali maggiori: bisognerebbe infatti chiedersi se il rimedio adombrato non sia peggiore del male.
E’ buono un metodo in cui si scuoiano topi, si uccidono cervi o si tolgono le corna alle vacche, per ottenere alla fine prodotti che non sono distinguibili per sapore, fragranza o altre proprietà organolettiche, rispetto a prodotti ottenuti con le stesse identiche procedure con metodo biologico o integrato?
E’ pulito un metodo di produzione che utilizza in viticoltura metalli altamente tossici come il rame, invece di prodotti ben più amici dell’ambiente, che tende ad aumentare o almeno a non ridurre il numero di vacche e quindi di emissioni serra, che consuma a parità di resa maggiori estensioni di territorio per uso antropico, e che infine richiede spesso l’uso maggiore di mezzi agricoli per lo spargimento su larghe aree dei preparati?
E’ giusto un metodo che innalza il costo dei prodotti, consentendo a una multinazionale e a un intero apparato di arricchirsi mediante la certificazione esclusiva e il possesso di un marchio, a discapito dei consumatori più poveri come pensionati e operai, e senza nessun vantaggio dimostrato sulle proprietà finali del prodotto ottenuto?
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