quale cambiamento?
Clima, ambiente e le risposte che Draghi avrebbe dovuto dare a Greta
Dallo Youth4Climate arriva la pretesa di “chiudere l’industria dei fossili entro il 2030”. Ma è impossibile smantellare in così poco tempo le fondamenta del nostro sistema industriale e sociale. La rivoluzione energetica sarà più lunga e complessa: la politica dovrebbe avere il coraggio di dirlo
Greta, anagraficamente (ma non nelle tematiche), si è fatta adulta. La politica, invece, nei rapporti con lo Youth4Climate, sembra scivolare in una regressione infantile. Spiace che, per doveri logistici di ospitalità, sia toccato al nostro governo, stavolta, fare mostra di forzata benevolenza verso le posizioni dell’evento giovanile del pre-Cop26. Ministri e premier si sono affrettati a lusingare come ragionevoli e fattive le “proposte” (eufemismo) venute dai ragazzi. Rinunciando, per paternalismo e complessi imitativi, a dire la verità sulle politiche per il clima. Eppure, il nostro premier, al recente G20, era stato il più esplicito e consapevole sulle asperità e i problematici effetti sociali di una transizione climatica in cui la sostenibilità ambientale si materializzasse in contrapposizione a quella sociale ed economica. Le “proposte” dello Youth4Climate sono riducibili a due, stringatamente: l’impegno a rappresentare i giovanissimi del movimento “nelle sedi decisionali sul clima”; la decisione (sic) di “chiudere l’industria dei fossili entro il 2030” (8 anni).
Se la prima, quella della rappresentanza, è un’ingenua e comprensibile istanza rintracciabile in ogni, lontana e vicina, esperienza di movimentismo giovanile, la seconda ricorda “l’assalto al cielo” della Rivoluzione culturale. Nessuno che abbia trovato il coraggio di spiegare il significato e gli effetti della pretesa, in soli 8 anni, di cancellare “l’industria dei fossili”, le fondamenta del nostro sistema industriale, sociale e di stili di vita. È una “proposta” o una “base di partenza”, ministro Cingolani, un tale proposito? Cosa è l’industria dei fossili? Forse i ragazzi intendono i soli impianti, industriali ed energetici, emissivi di CO2? In tal caso, da parte di persone adulte, istruite e responsabili, andrebbe corretta la disinformazione. Per industria dei fossili si intende quella che utilizza gli idrocarburi (petrolio e gas) e i loro derivati per realizzare una larga serie di prodotti, servizi e attività, ben oltre gli impianti di energia o l’industria dei carburanti: plastica e nuovi materiali, farmaceutica, cemento e costruzioni, metallurgia e siderurgia, tessile e chimica, agricoltura e industria alimentare, cosmetica e igiene personale, e molto altro. Insomma, la base e l’infrastruttura della nostra civiltà. La superiamo in 8 anni? Forse nemmeno in un secolo. Perché, per apparire ambientalisti convinti, si devono titillare ingenue credenze e propositi velleitari e distruttivi?
Una singolare congiuntura ha visto coincidere il G20 ambiente, la preparazione della Cop26 sul clima e lo Youth4Climate con i risultati delle elezioni tedesche. Con un effetto sorprendente: nel momento in cui, con il green deal e i target climatici, la politica europea si fa verde, i Grünen tedeschi subiscono una battuta d’arresto. La prima dopo un decennio di crescita ininterrotta. C’è di che riflettere. Anzitutto per quella sinistra europea che, nell’ultimo quindicennio, ha schiacciato progressivamente la propria identità sull’agenda, le issue, gli slogan, gli interessi dei movimenti verdi. Questo sommovimento, proprio quando la politica climatica si fa politica di governo dell’Europa e degli stati, sembra aver raggiunto un turning point. Per quale ragione? La sinistra potrebbe trovare una risposta in un libro di 10 anni fa, “La politica del cambiamento climatico”, di Anthony Giddens, l’inventore della fortunata formula della Terza via e del nuovo riformismo ispirato a Tony Blair e ai liberal Usa. In quel libro profetico, l’autore ammoniva sul rischio per i progressisti: quando il contrasto al riscaldamento globale si fosse tradotto in politiche concrete dei governi, sarebbe venuto al pettine il nodo, per i progressisti, dei rapporti con la “letteratura apocalittica” e “l’insostenibile agenda dei movimenti verdi: avversione all’industrialismo; conservazionismo ambientale; primitivismo tecnologico (a partire dall’avversione al nucleare no-carbon); povertà energetica (indifferenza alla sicurezza e abbondanza dell’energia); regressività dell’uso esasperato dei principi di ‘sostenibilità e precauzione’”.
La profezia di Giddens si è puntualmente avverata. Transizione climatica e tenuta sociale sono in frizione e in rotta di collisione: prezzi che si impennano per consumatori e imprese; imposizione fiscale regressiva per finanziare la decarbonizzazione; resa limitata e insufficiente delle energie rinnovabili (che costringono ad allungare il ricorso al gas naturale); crisi dei settori hard to abate (trasporti, siderurgia, cementizia, chimica, agricoltura, industria cartaria) soffocati dai tempi e dai costi dei target emissivi. La “neutralità climatica” non è un pranzo di gala. E i politici di governo avrebbero il dovere di raccontare la verità. Una correzione si impone: la transizione energetica non va più, semplicisticamente, schiacciata su quella climatica, intesa (a sua volta) con il timing dei target emissivi al 2030. La rivoluzione energetica sarà più lunga e complessa. La civiltà dei fossili e delle energie convenzionali (tra cui il nucleare) non sparirà in otto anni. È ingenuo e irresponsabile pensarlo. E la politica, a partire da quella progressista, avrebbe il dovere di dirlo. Per l’Europa, la “neutralità climatica”, ridotta alle sole emissioni carboniche, e la decarbonizzazione, hard e accelerata, in meno che un decennio, rischia di tradursi in un calvario di declamazioni volontaristiche, costi sociali e declino competitivo. Forse tutta la politica europea (destra, sinistra e centro) dovrebbe disporsi a uno sforzo di umiltà e, sulle politiche della transizione climatica, imparare di più da Usa e Cina e immettere dosi di realismo e modernità nel green deal europeo.
Cattivi scienziati