Mario Draghi al G20 di Roma (LaPresse) 

entro la “metà del secolo”

Liberiamoci dall'ansia della data nel dibattito sulle emissioni

Umberto Minopoli

Il termine del 2050 per raggiungere il carbon zero era solo un feticcio. Draghi coglie l’essenziale: ora concentriamoci su una transizione realistica, senza rinunciare a produrre energia abbondante e sicura

In apparenza un passo indietro: dai documenti sul clima del G20 scompare la data del 2050 come target per la net zero carbon emission (stop all’eccedenza antropica di CO2 rispetto a quella naturale), sostituita dall’obiettivo di contenere, entro la “metà del secolo”, l’aumento medio delle temperature globali entro il tetto dell’1,5 °C. Cina e Russia, ma anche India e Arabia Saudita (quattro dei primi otto paesi emettitori) ritengono, pur vincolandosi al net zero, la data del 2050 incompatibile con le esigenze di sviluppo delle proprie economie. Eppure, il premier Mario Draghi ha definito l’accordo sul clima un passo avanti, parlando addirittura di un “sogno che si realizza”. 

 

Solo enfasi da parte dell’ospite di turno del G20? In realtà Draghi, da leader pragmatico, realista e attento, ha colto l’essenziale: vale la pena pregiudicare un impegno empirico sulle cose da fare nei “prossimi dieci anni”, veramente decisivi per realizzare poi nei due o tre decenni successivi la net zero, sacrificandolo a causa di una divisione sugli scostamenti di qualche anno dalla data del 2050? Tale data è del tutto astratta: niente più che un criterio orientativo e formale. Il clima del mondo non cambia in date precise. Si tratta, ovviamente, di eventi, previsioni e tendenze legate a parametri di lungo periodo.

 

Ciò che conta, invece, è: cosa facciamo, nel prossimo decennio intanto, e poi nei due successivi per realizzare le condizioni della net zero emission? Questa dipende dalle trasformazioni del sistema energetico che si riusciranno a realizzare nel prossimo decennio.

 

Dipende cioè dalla tecnologia (oggi non ancora del tutto a disposizione) che renderà possibile emettere di meno (fino a non emettere) senza rinunciare alla ricchezza energetica, ai consumi elettrici e alla disponibilità di energia abbondante e sicura. Specie per i paesi che ancora registrano un gap dalle economie ricche e avanzate. Draghi l’ha esplicitato: questo è l’essenziale. Il multilateralismo sul clima, se fosse ridotto all’accordo su una data o sul tasso di aumento delle temperature, si ridurrebbe a una pretesa un po’ burlesca, faceta, prometeica: la pretesa di mitigare il clima del pianeta con asserzioni e decreti dei governi. Meglio concentrarsi su ciò che è alla portata degli uomini: transitare a un nuovo sistema energetico, di produzione e di consumo, meno segnato dall’imprinting carbonico. Con realismo, razionalità ed efficacia. Con meno proclami e più atti concreti, e investimenti nella scienza e nelle tecnologie. Credo che questo motivi i commenti soddisfatti di Draghi alle intese del G20 sul clima. 

  

Sulle cose da fare nel prossimo decennio, l’accordo multilaterale è assai più largo che sulla data del 2050: un fondo dei paesi ricchi (non bastano 100 miliardi) per sostenere la transizione energetica dei paesi più svantaggiati; il ricorso a politiche di stimolo, più che alle tasse carboniche; un forte sviluppo delle energie rinnovabili (solare, eolico, biomasse), dai pochi punti percentuali attuali nei portafogli energetici ad almeno il 30/40 per cento; il phase out degli impianti a carbone; l’aumento della quota di energia no carbon generata da fonte nucleare (l’unica che può, in molti paesi, sostituire le centrali a carbone); l’uso del gas naturale e del metano esclusivamente come energia di transizione; il ricorso all’idrogeno per sostituire i carburanti fossili, per decarbonizzare i settori hard to abate (acciaio, carta, cemento) e come futuro vettore di elettricità; lo sviluppo di nuovi sistemi di accumulo (batterie) per elettrificare i trasporti e integrare le reti rinnovabili intermittenti; le tecnologie di cattura, stoccaggio e riuso della CO2; l’ingresso in campo, già nel prossimo ventennio, dei dimostratori della fusione nucleare: energia pulita, sicura, disponibile su cui si registra una corsa significativa di investimenti privati. Nei prossimi dieci anni, sono queste le scelte che possono determinare o meno l’approccio realistico al net zero per la metà del secolo. 

  

Liberare il dibattito sulle politiche climatiche dall’ansia della data è utile anche a un’altra finalità: precisare e circoscrivere il significato di emergenza climatica e delle politiche per contrastarla. Che cosa abbiamo veramente alle porte, quando parliamo di catastrofe climatica? Qui bisogna distinguere la retorica apocalittica (che spesso entra anche nelle dichiarazioni dei politici di governo) dalle verità contenute nei report e nei documenti degli esperti, a partire dall’Ipcc dell’Onu. Nella sostanza, la prospettiva dell’aumento della temperatura di 2 °C entro questo secolo (nei report dell’Ipcc di qualche anno fa, era considerato uno scenario quasi ottimale) viene connessa a un’intensificazione ulteriore di fenomeni ed eventi già collegati al warming (acidificazione degli oceani, ritiro dei ghiacciai, aumento del volume di mari, ecc.), ma soprattutto a un aumento dei fenomeni meteorologici estremi (uragani, piogge torrenziali, inondazioni, incendi). 

  

Nessuna apocalisse o morte del pianeta alle porte. Certo, una prospettiva da mitigare. Solo con le emissioni? Se stiamo alle autorità del clima (ma ci sono controversie tra gli scienziati), l’aumento dei fenomeni meteo estremi è già in atto ed è motivato dall’attuale stock di CO2 in atmosfera. È bene dirlo: per ragioni fisiche, se si realizzassero le più ambiziose politiche antiemissive, si dovrebbe registrare una stabilizzazione (se non un leggero aumento) delle quantità di CO2 in atmosfera. Dunque, aspettare la net zero per fronteggiare e vedere diminuiti i fenomeni meteo estremi è del tutto vano e inefficace. Occorre, invece, posizionare le politiche ambientali sulla resilienza e l’adattamento. Lo sostiene (Corriere della Sera, 1 novembre) la scienziata italiana Claudia Tebaldi, dell’Università del Maryland, coautrice dell’ultimo Rapporto dell’Ipcc sul clima: “Abbiamo la capacità e la possibilità, come civiltà, di adattarci agli eventi estremi e diminuirne l’impatto”. I “costi dell’adattamento”, sostiene la climatologa italiana, dovrebbero entrare, come quelli delle emissioni, nelle agende e nei bilanci dei governi. C’è da sperare che un maggior pragmatismo delle politiche climatiche, liberate dall’ansia paralizzante delle date finali, apra a questa novità.