Andrea Crisanti e Fabrizio Pregliasco (Ansa)

La rivoluzione del non so

La quarta ondata ci ricorda la differenza tra verità e scienza

Claudio Cerasa

La recrudescenza del virus illumina la pericolosità del pensiero dogmatico. Perché il teatrino dei virologi (con paletti) è la spia non di un vizio ma di una virtù italiana

E se il teatrino dei virologi e degli scienziati, piuttosto che uno spettacolo ridicolo, fosse la spia di una virtù italiana? Piccolo passo indietro, per poi arrivare al punto. Il piccolo passo indietro, necessario, non può che partire da qui: dal progressivo ingresso del nostro paese all’interno della quarta ondata pandemica. Una fase nuova, per certi versi inaspettata, che costringe diversi osservatori a fare i conti con un fenomeno culturale traumatico a cui l’Economist di questa settimana ha dedicato un editoriale molto interessante. Il tema è questo: la nostra nuova normalità non può prescindere dal fatto che l’imprevedibilità continuerà ancora a lungo a essere il motore delle nostre vite. L’imprevedibilità, naturalmente, è un concetto largo che riguarda prima di tutto la nostra economia, la nostra fiducia nel futuro, la nostra propensione al rischio, ma è un concetto che a ben vedere riguarda in modo specifico il nostro rapporto con quello che oggi è il vero termometro della nostra esistenza: la scienza e il nostro rapporto con gli scienziati.

 

E il punto di fronte al quale ci troviamo oggi in fondo è semplice: possiamo accettare che l’economia sia imprevedibile, d’accordo, ma fino a che punto riusciamo ad accettare il fatto che l’evoluzione di una pandemia non sia prevedibile? La risposta a questa domanda, che dovrebbe essere ovvia, perché è ovvio che l’evoluzione di una pandemia non sia purtroppo prevedibile, nasce da un clamoroso cortocircuito che è stato favorito in questi mesi da tutti coloro che hanno tentato di rispondere alle incertezze pandemiche con un approccio dogmatico, alimentando l’illusione che la scienza possa offrire risposte semplici a problemi complessi e in certi casi persino verità assolute. L’illusione, in questi mesi, è stata foraggiata in modo maldestro da chi ha trasformato i virologi e gli scienziati nei nuovi apostoli della verità, provando a far occupare agli scienziati le stesse caselline un tempo offerte ai magistrati, e da chi a sua volta ha cercato in modo maligno di trasformare gli scienziati nei nuovi nemici pubblici sui quali scaricare gli istinti repressi del populismo anti casta, provando a far occupare ai virologi le stesse caselline un tempo utilizzate per denigrare l’establishment. Il risultato di questo gioco pericoloso è evidente: presentare la scienza come la portatrice di una verità assoluta, appunto, dimenticando che la scienza è qualcosa di molto diverso, è una semplice e formidabile portatrice di un metodo che non punta a imporre una verità ma che punta a ridurre al massimo i rischi e dunque l’incertezza.

 

Per queste ragioni, da ambo i lati, l’approccio dogmatico allo studio della pandemia – approccio che vede come protagonisti tutti coloro che non si arrendono al fatto che la pandemia si governa non a colpi di rigidi princìpi non negoziabili ma con un mix pragmatico fatto di prudenza, pazienza e prontezza – ha mostrato di essere più parte di un problema che parte della soluzione. E il ragionamento vale sia per chi cerca in modo strumentale di presentare gli scienziati come se questi fossero i nuovi nemici del popolo, desiderosi cioè di togliere appena possibile libertà ai cittadini per poter esercitare i propri pieni poteri, sia per chi nel mondo della scienza, accecato magari dalla ribalta mediatica, ha scelto di evitare con cura di utilizzare, quando necessario, una frase che uno scienziato non dovrebbe mai dimenticare:  non so. Naomi Oreskes, storica della scienza all’Università di Harvard, ha provato a ragionare su questo tema nelle pagine di un libro di successo pubblicato qualche mese fa e intitolato “Perché fidarsi della scienza”. Nel libro, Oreskes ha provato a inquadrare alcuni cortocircuiti della fase che stiamo vivendo, partendo da una considerazione di carattere storico che si nasconde dietro la parola greca Pharmakon. Pharmakon, dice Oreskes citando una vecchia lezione di Jacques Derrida, ha un duplice significato.

 

Può significare sia “cura” che “veleno” e se si parte dalla radice di questa ambivalenza si capirà bene perché per uno scienziato costruire un rapporto di fiducia con i suoi interlocutori non è affatto naturale. Occorrono dei paletti. Occorrono delle regole. Occorrono delle accortezze. Gli scienziati estranei al modello spazzatura, dice Oreskes, dovrebbero essere umili in modo da poter rivedere le proprie conoscenze sulla base di nuove prove, poiché “anche il migliore degli scienziati dovrebbe ricordare che una comprensione completa dell’intera verità è ancora molto al di là di noi”. E dovrebbero farlo perché la scienza genera fiducia “quando emerge un’opinione condivisa di esperti all’interno di una comunità scientifica diversificata e caratterizzata da ampie opportunità di revisione tra pari e da una grande apertura alle critiche”. L’onestà, dice ancora Oreskes, implica che gli scienziati non dovrebbero fingere di conoscere sempre la verità ultima, implica il fatto che gli scienziati stessi non dovrebbero rifuggire dall’ammettere che “non lo sappiamo a questo punto” o aggiungere che il loro consiglio è “secondo le nostre migliori conoscenze”, e implica il fatto che i rappresentanti della scienza dovrebbero rifiutarsi apertamente e consapevolmente di soddisfare queste aspettative irrealistiche che vanno contro la natura stessa della scienza, “dove l’evoluzione della conoscenza non è lineare, gli errori sono naturali e la correzione è inevitabile”.

La verità, come ricordava Francis Bacon e come ricorda un formidabile paper scritto su questo tema da Péter Krekó, direttore del Political Capital Institute, un think tank liberale con sede a Budapest, emerge più facilmente dall’errore che dalla confusione e in questo senso si può dire che il teatrino messo in scena ogni giorno dai virologi italiani sia un teatrino tutto sommato positivo per almeno due ragioni. La prima, fondamentale: meglio avere i virologi che i politici a dominare la scena pandemica. La seconda, più sottile: se per fidarsi della scienza occorre mettere la scienza a riparo dal dogmatismo, il teatrino, con le giuste accortezze, può aiutare gli scienziati a combattere l’illusione che il futuro sia prevedibile, offrendo elementi ulteriori per ricordare che la scienza è portatrice di un metodo che non punta a imporre una verità ma che punta a ridurre al massimo i rischi e dunque l’incertezza.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.