La danza del virus

Le mutazioni di questa pandemia e le risposte politiche sempre uguali

Gilberto Corbellini e Alberto Mingardi

L’invocazione dei lockdown, il ripetere continuamente che non si fa abbastanza: sono tutte narrazioni controproducenti. Siamo ossessionati dalle varianti, anche perché ognuna diventa un nuovo affondo di questo terribile nemico. Ma mutare è nella sua natura

Tutta la vita, in senso biologico, ma anche in uno più ampio, è risolvere problemi, sosteneva Karl Popper. Qualunque organismo per tenersi in vita e riprodursi deve incessantemente risolvere problemi, ai più diversi livelli. La pandemia, in questo momento, è ritenuta da molti il nostro principale “problema” (che sia un problema non vi è dubbio, che sia il principale se ne potrebbe discutere).

 

Le specie biologiche meno dotate di capacità cognitive risolvono i problemi dettati da cambiamenti o minacce ambientali quasi solo attraverso la selezione naturale degli individui, per cui sopravvivono e si riproducono preferibilmente quelli che esprimono nel fenotipo novità genetiche che eliminano o attenuano i rischi. Noi, che grazie alla selezione naturale ci ritroviamo dotati del cervello possiamo risolvere le difficoltà evitando la selezione naturale e usando quella culturale, soprattutto da quando abbiamo inventato il più efficiente strumento per provare a spiegare i fatti, cioè la scienza o meglio il metodo scientifico.

   

Con la scienza sono arrivate anche le società aperte che amplificano il potenziale controintuitivo del metodo scientifico. In queste, gli individui sono lasciati liberi ciascuno di risolvere i problemi che sembrano a lei o a lui più rilevanti, in questo “moltiplicando” la creatività sociale. Come ha spiegato F.A. Hayek i vantaggi che ciascuno di noi trae dalla libertà “sono in gran parte il risultato dell’uso che altri fanno di essa, uso a cui spesso non sarei potuto ricorrere. (…) L’importante non è di quale libertà personalmente vorrei potermi giovare, ma quale libertà può essere necessaria ad altri per operare a vantaggio della società”.

 

Della “potenza” della scienza e dell’importanza del pluralismo che ne connota l’architettura abbiamo avuto un saggio con la pandemia.  Abbiamo potuto vedere come il problema è stato affrontato, inizialmente e in assenza di informazioni controllate, con approcci di natura diversa (come quelli epidemiologici e sanitari). Essi in ultima istanza hanno tutti cercato di ridurre i contagi influenzando i comportamenti delle persone: mascherine, lockdown, distanziamento e limitazioni della mobilità. Il governo ha agito per sottrazione di libertà individuale, senza bene conoscere quanto fossero valide e necessarie le misure in generale e localmente. Lockdown, distanziamento e limitazione della mobilità appartengono al repertorio delle misure che venivano usate soprattutto prima della rivoluzione microbiologica dell’Ottocento, insieme ai sacrifici agli dèi, ai massacri degli ebrei o altre minoranze etniche e alla tortura di presunti untori.

 

Gli approcci scientifici che usano la sperimentazione controllata in laboratorio o in ambito clinico (come la virologia, l’immunologia, la farmacologia, etc.) hanno rapidamente risolto alcuni problemi sulla base di un’analisi riduzionistica degli elementi producono la pandemia: virus, ospite umano e fattori ecologici. Mentre gli approcci che hanno istruito e istruiscono le misure non farmacologiche navigano a vista col solo uso di modelli o assunzioni carenti sul piano conoscitivo e quindi per potenziale predittivo, quelli sperimentali hanno raccolto dati sulla base di ipotesi falsificabili e usando teorie già corroborate, quindi costruendo scenari riproducibili, aderenti alla realtà, che hanno consentito e consentono di sviluppare vaccini efficaci e ora anche farmaci.

 

L’approccio scientifico-sperimentale non procede per sottrazione di gradi di libertà delle persone. Esso anzi produce conoscenza: cioè aggiunge contenuti o segnalazioni direzionali che arricchiscono lo spazio delle scelte individuali. La scienza è “senso non comune”, funziona proprio perché ci affranca dalle inclinazioni epistemologiche intuitive, che servono alla sopravvivenza e alla riproduzione nel mondo dove domina la selezione naturale, per proiettarci nel mondo in cui l’obiettivo è spiegare come stanno davvero i fatti, usando le soluzioni dei problemi ottenuti col metodo scientifico per progredire anche economicamente e socialmente. Sappiamo, dai tempi di Francis Bacon almeno, che tendiamo a non essere razionali, cioè siamo poco efficienti e molto condizionabili nel raccogliere, organizzare e usare le informazioni necessarie per prendere decisioni ottimali. Mentre anche con questi limiti ce la caviamo bene nella quotidianità, quando il gioco si fa duro la nostra inefficienza ci viene occultata da diversi sistemi di autoinganno, tra cui il più comune e dannoso è l’overconfidence. In questo modo tendiamo a placare la nostra ansia dovuta alla mancanza di controllo della situazione, ma a caro prezzo. I duri che cominciano a giocare non sono di norma i migliori, ma quelli che si autoingannano meglio e così sono più efficaci nell’ingannare chi sta intorno a loro.

 

Questa condizione nella pandemia è stata la regola. Il senso comune soffia sul fuoco di una serie di credenze antiscientifiche che nel passato passavano attraverso la superstizione o i divieti religiosi (soprattutto sul piano alimentare e sessuale), come l’idea che una minaccia potesse sparire definitivamente se solo la divinità ci faceva la grazia. Oppure, in assenza di evidenti cause a cui agganciarsi, la singola malattia o le epidemie erano ritenute conseguenze di una colpa. I rapporti tra malattia e morale sono strettissimi sin dall’alba dell’uomo e li abbiamo visti o li stiamo vedendo all’opera nel linguaggio e nelle scelte delle persone e dei loro governanti. Inoltre, il senso comune spesso ignora ciò che invece suggerisce, prima della scienza, il buon senso: cioè che non è vero che vale la pena perseguire qualsiasi sentiero d’azione whatever it takes, costi quel che costi. “Quel che costa” è spesso molto importante, anzi è l’elemento fondamentale perché una società, al pari di una famiglia o di un individuo, possa ragionare su come affrontare un problema, quali misure mettere in campo, per quanto tempo, etc. La strategia Covid zero, l’invocazione dei lockdown, il ripetere continuamente che non si fa abbastanza, o che i vaccini, i test antigenici, etc. non bastano, rientrano in queste narrazioni fatte da esperti con diversi profili ma che di regola esprimono un’epistemologia formato fumetto. Quasi infantile, malgrado l’età e il ruolo sociale che magari ricoprono.

 

Gli scenari deterministici nei quali numerosi esperti si sono calati, convinti apparentemente che le persone siano come molecole di gas o palle da biliardo, ovvero che i comportamenti individuali siamo prevedibili e condizionati a piacere (il loro naturalmente) e che ogni persona sia o debba essere in qualche modo tracciabile e isolabile in caso di necessità e che questo si possa fare su qualunque scala demografica, forse più che un approccio alla pandemia riflette anche qualche tratto spiccato dello stile ideologico che non abbandona le loro elaborazioni.

 

Tutti abbiamo imparato durante questa pandemia che come specie, insieme agli altri vertebrati, possediamo un sistema immunitario. La parola “anticorpo” è da decenni entrata nel lessico comune e metaforico (es. gli anticorpi delle democrazie o contro l’intolleranza, etc.) ma non molti sanno che il sistema immunitario,  per svolgere il suo lavoro, utilizza le stesse strategie per risolvere i problemi che consentono alle specie di adattarsi all’ambiente e al cervello di categorizzare il mondo e imparare dall’esperienza. Ora i sappiamo che la vaccinazione dipende dal fatto che il sistema immunitario è dotato di memoria, ma la memoria immunitaria, come quella neurobiologica, non consiste in qualcosa di simile a una tavoletta di cera (Platone) o in una tabula rasa (Aristotele e Locke): è un processo di elaborazione attiva molto complesso di stimoli che vengono da parassiti. La gestione della pandemia ha confermato che l’immunologia è forse la scienza biomedica più avanzata oggi, considerando che ha a che fare con un sistema che in ultima analisi se la batte col cervello quanto a complessità: quest’ultimo serve a esplorare e gestire l’ambiente macroscopico, il primo quello microscopico.

 

I fatti della pandemia che contano davvero riguardano l’incontro tra il virus e l’immunità individuale ed è lì che si decide tutto, di nascosto rispetto alla nostra comprensione e ai nostri sensi. Anche se ci siamo infettati o accusiamo sintomi fastidiosi, non vediamo i virus all’assalto o i danni che causano, a meno di non guardare una lastra radiologica dei polmoni per esempio. Il virus pesa un femtogrammo, per uccidere una persona ne basta qualche micron e individualmente non conta niente – come ognuno di noi su scala evolutiva – né pianifica strategie d’attacco.

 

Semplicemente si replica, mutando incessantemente per creare popolazioni di composizione genetica sempre diversa. L’effetto non intenzionale che ottiene sono quelli che a posteriori chiamiamo adattamenti (es. più trasmissibilità). Siamo ossessionati dalle varianti, anche perché ognuna diventa, nel grande De Bello Gallico della pandemia, un nuovo affondo di questo terribile nemico. In realtà le varianti sono la norma, dobbiamo aspettarcele, perché così si comporta un virus: muta, varia. 

 

Il sistema immunitario è il nostro presidio di difesa naturale in caso di infezione. Con la vaccinazione, in qualche modo inganniamo il sistema immunitario, facendogli credere di avere incontrato, col vaccino, il virus, e stimolandone la reazione ai fini di sviluppare la memoria immunitaria. Le varianti sono un problema se le mutazioni riguardano i profili molecolari che abbiamo incontrato naturalmente o usato per creare le false memorie immunitarie: se, cioè, quella memoria, “spontanea” o “indotta”, non contiene più le istruzioni giuste per fronteggiare il virus.

 

Anche nelle discussioni su vaccini e immunità il senso comune confonde le idee. Le persone pensano che se qualcuno è immune allora deve essere completamente protetto. Ma i sistemi viventi sono tutti diversi, per fatto naturale per così dire o a causa di danni pregressi difettosi. Sono uscito cento persone che si infettano una decina si ammalerà, potrebbe finire all’ospedale e una o due se hanno il sistema immunitario compromesso faranno la malattia in forma grave.

 

L’evoluzione non è teleologica. I suoi diversi attori non recitano ciascuno un proprio canovaccio, meticolosamente scritto e poi loro affidato come fossero bravi attori. Come tutti, in qualsiasi sistema complesso, “reagiscono” alle condizioni in cui si trovano. In linea di massima, negli ultimi due anni non abbiamo visto comparire varianti che aumentano la gravità della malattia, ma solo che aumentano la trasmissione. Questo dovrebbe significare, se applichiamo una logica evoluzionistica, che alcune mutazioni sono più consentite, frequenti e hanno maggiore fortuna di altre e che tutte le mutazioni che portavano a forme più gravi non avevano successo perché magari compromettevano la capacità dei virus di entrare nelle cellule. Per esempio, di riconoscere il recettore ACE2.

 

Stiamo ragionando a un livello speculativo e le mutazioni in ogni gene riverberano su altri geni virali. Però i tratti adattativi di qualunque organismo biologico, dal virus all’uomo, ma anche tratti culturali mirati a risolvere problemi sono fondati sempre su trade-off. Lo sono in quanto risultato di precedenti incanalamenti evolutivi ma anche nella ricerca di soluzioni funzionali contingenti.

 

Virus (evoluzione), cervello (comportamento umano) e sistema immunitario (vaccinazioni): sono i tre effettivi protagonisti della pandemia in corso e dalle loro interazioni si deciderà come evolverà. Forse sarebbe utile calarci, almeno temporaneamente, in quella che Popper chiamava una “epistemologia evoluzionistica”, non tanto nella convinzione che vi si possano trovare le Soluzioni con la esse maiuscola, le ultime parole di cui tutti sentiamo inevitabilmente la necessità, ma per recuperare un senso di umiltà e una visione più pertinente dei fatti che stanno accadendo e in parte anche delle cause. Anche per ricordarci, magari, che di trade-off sono fatte pure le politiche pubbliche: ciascuna di esse ha dei costi. Costi economici e in termini di libertà: rendere più difficoltoso il movimento delle persone, per esempio, riduce i contatti, gli scambi, le interazioni.

 

Diventa più difficile per ciascuno immaginare progetti comuni. Le libertà cui si rinuncia dovrebbero poi essere recuperate: sappiamo che se c’è un ambiente governato dall’inerzia, quello è la politica, e dunque i frammenti di libertà persi in pochi giorni possono avere bisogno di anni per riaffermarsi. Ma anche costi rispetto alla stessa dinamica della nostra interazione col virus. Ridurne la circolazione può avere effetto sulle varianti che vengono selezionate, per esempio, non necessariamente “aiutando” le meno letali. L’interazione fra noi e il virus è una realtà complessa, nella quale non ha senso dar nulla per scontato. Invece continuiamo a farlo da quasi due anni, inseguendo le azioni politicamente più spettacolari. Ma non è detto che queste abbiano poi gli effetti dichiarati, in quella lunga danza che è e sarà la convivenza obbligata e inevitabile fra noi e Sars-Cov-2.

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