Manifestanti al raduno no vax e no green pass in piazza San Giovanni a Roma il 15 gennaio 2022 (Ansa) 

contro il gregge

Cosa c'è di sbagliato nella comunicazione sui vaccini

Gilberto Corbellini e Alberto Mingardi

La comunicazione sulla vaccinazione ha assunto toni drammatici che non aiutano né le persone a scegliere né noi a comprendere le loro scelte. Si è concentrata sui benefici per la collettività invece che per il singolo. Ma così si alimenta la diffidenza 

 

"Chi non si vaccina contagia gli altri e li aiuta a morire”. Almeno in Italia, la comunicazione sulla vaccinazione ha assunto toni drammatici che non aiutano né le persone a scegliere né noi a comprendere le loro scelte. Inoltre, il discorso pubblico è stato tutto impostato sulle ricadute collettive della vaccinazione. Si è detto che si trattava di un “dovere civico”. I benefici personali ed “egoistici” della vaccinazione sono stati paradossalmente derubricati a mero dettaglio. 

 

Le società aperte sono emerse a seguito dell’affermarsi di sistemi come la scienza e il mercato che evolvono attraverso la selezione di informazioni che trovano riscontri oggettivi nella realtà, per cui ci aspettiamo che comportamenti che sono individualmente vantaggiosi vengano adottati spontaneamente dalle persone. Tuttavia, la diversità individuale nelle scelte è un dato di fatto, non un inconveniente. Gli individui non sono il risultato della scomposizione di una comunità, per cui ci si aspetta che disaggregando qualcosa che è ritenuto uniforme, si ottengano elementi a loro volta identici. Non è così, fortunatamente. Il modo in cui comprendiamo e valutiamo la possibilità della vaccinazione è dunque diverso. E alcuni sono portati a non comprenderne appieno le implicazioni e a reagire in modo emotivo, sulla base di un’intuizione che non ha base nei fatti ma che nondimeno orienta il loro comportamento. In che misura la comunicazione del governo ma anche quella degli esperti è riuscita a venire alle prese con questo problema?

 

Questa è la questione.

 

I vaccini salvano la vita, nel senso che garantiscono una immunità individuale, che può variare e non sarà mai del 100 per cento, dal contrarre un’infezione o ammalarsi. I nove vaccini anticovid approvati dall’Ue variano per efficacia contro malattia e infezione, ma soprattutto a seconda delle varianti: si partiva da un’efficacia tra il 90 e il 97 per cento nel caso della variante originaria contro la malattia grave, e del 65-85 per cento contro l’infezione, per scendere nei caso di Omicron al 75 per cento contro l’ospedalizzazione e a meno del 50 per cento contro l’infezione. Si tratta di valori in linea con le aspettative della vaccinologia, considerando le caratteristiche del virus e la dimensione pandemica della sua circolazione. Se guardiamo ad altri vaccini, che sono ovviamente usati in contesti diversi, vediamo che tra i più efficaci ci sono quelli contro morbillo e rosolia, che dopo due dosi raggiungono il 97 per cento, mentre quello contro la parotite si ferma all’87. Molto efficaci, quasi al 100 per cento, i vaccini contro papilloma, poliomielite, tetano e difterite. L’efficacia del vaccino anti-influenzale oscilla tra 40 e 60 per cento, a seconda dei ceppi, e poco più efficaci sono i vaccini contro pneumococco e meningococco.

 

Il rifiuto dei vaccini è diventato negli ultimi decenni un problema sanitario in sé, al punto che per l’Oms è una delle principali emergenze sanitarie

 

L’interazione tra virus, immunità e tessuti bersaglio non è un gioco di Lego, ma un processo dinamico per cui il livello di protezione che si raggiunge è altamente individuale e i dati che leggiamo derivano da calcoli statistici, i quali dicono che, pur rimanendo molte incertezze sulla durata dell’immunità, i vaccini sono la miglior protezione di cui disponiamo contro i rischi da Covid-19. Se una percentuale elevata di persone in una comunità si vaccina, la protezione si estende per un effetto statistico (immunità di gregge) anche a coloro che per motivi medici non possono farlo. Sul piano razionale si tratterebbe di una scelta dove si vince tutti: il beneficio collettivo in questo caso coincide con quello personale, non è un altare sul quale il secondo va sacrificato. Per questo si resta sorpresi che, nella realtà, una percentuale variabile della popolazione, a seconda dei luoghi e dei tempi, esiti, ritardi o rifiuti la vaccinazione di volta in volta indicata.

  

I vaccini non sono meno sicuri ed efficaci di altri farmaci. Passano attraverso i medesimi controlli. Nell’attuale situazione, con i primi trattamenti efficaci contro Covid-19 ancora poco diffusi, non vaccinandosi si accetta il rischio di contrarre una infezione che (per quanto con un grado di probabilità ben diverso a seconda di stile di vita, età, eccetera) può portare con sé anche un certo rischio di morte. Lo stesso rifiuto non viene espresso verso altri trattamenti farmacologici, che magari sono appunto meno sicuri o efficaci. Un primo fatto che viene trascurato nella discussione è che mentre assumiamo un farmaco perché siamo malati, ci sentiamo male o abbiamo ricevuto una diagnosi, i vaccini si fanno mentre stiamo bene. Non è secondario questo dato, visto che se abbiamo paura delle iniezioni o di qualche effetto collaterale, il nostro cervello può trovare i più diversi motivi per evitare che ci vacciniamo: aspetto che lo abbiano fatto altri, io sto attento e sono meno a rischio di infettarmi, non è chiaro come sono stati fatti e sono ancora sperimentali, non sono anagraficamente a rischio, etc.

 

A volte ragionare al contrario di quello che viene richiesto o suggerito si rivela vantaggioso per la persona e la comunità. E’ il caso del mercato (che ha bisogno di idee e di punti di vista diversi), è il caso della scienza, è il caso della politica. Ma ciascuno di questi ambiti rappresenta un contesto epidemico dai confini abbastanza chiari. Il bisogno di approcci e metodi diversi nell’ambito della ricerca non si traduce affatto nel rifiuto dei trattamenti che essa produce.

 

Il rifiuto dei vaccini o l’esitazione a vaccinarsi e vaccinare i bambini è diventato negli ultimi decenni un problema sanitario in sé, al punto che per l’Oms è una delle principali emergenze sanitarie. Gli effetti del rifiuto e dell’esitazione si sono visti ben prima del Covid-19. Nell’Ottocento si organizzavano celeberrime e violente manifestazioni pubbliche in Inghilterra per cancellare l’illiberale obbligatorietà della vaccinazione antivaiolosa. Ma il rifiuto dell’obbligo non ha impedito agli inglesi di organizzare, nel Novecento, vaccinazioni di massa contro diverse malattie letali per i bambini (poliomielite, difterite, morbillo, etc). In altri paesi, fra cui il nostro, l’obbligo ha una storia meno controversa. 

  

Quando le malattie sono sparite dai radar delle mamme (non si vedevano più i bambini del vicinato ammalarsi o morire), l’atteggiamento verso le vaccinazioni ha cominciato a cambiare. Nel corso degli ultimi due decenni l’esitazione verso le vaccinazioni ha contribuito a un aumento del 30 per cento dei casi di morbillo a livello globale nel 2019. La vaccinazione è uno dei modi più economici per evitare le malattie: attualmente previene 2-3 milioni di morti all’anno, e altri 1,5 milioni potrebbero essere evitati se la copertura globale delle vaccinazioni migliorasse.

  

Il dibattito ha preso una piega troppo lineare, “moralizzando” la vaccinazione. Si oscilla tra considerare gli antivaccinisti come criminali o eroi

 

La radicalizzazione delle posizioni antivacciniste, nel caso della campagna di profilassi contro Covid-19, è coincisa con l’introduzione dei green pass: con la scelta, cioè, di non mettere in campo incentivi positivi per la vaccinazione (per esempio: una somma in denaro, un biglietto della lotteria, eccetera, come fatto per esempio negli Usa) bensì una forma di obbligazione indiretta. Sin da subito, il dibattito sul tema ha preso una piega eccessivamente lineare, “moralizzando” la vaccinazione. Sul piano intuitivo le posizioni che spiegano o rispondono al rifiuto di vaccinarsi oscillano tra il considerare irresponsabili, ignoranti o criminali gli antivaccinisti, ovvero a ritenere codardi e pericolosi gli incerti ed esitanti, e il giudicare che si tratti di una manifestazione coraggiosa della libertà di scelta individuale e della resistenza a illegittime ingerenze del governo. In realtà, le cose stanno in modi più complessi. Le ragioni per cui le persone scelgono di non vaccinarsi sono diverse e articolate. Un gruppo di esperti internazionali riunito dall’Oms ha identificato il compiacimento, la scomodità nell’accedere ai vaccini e la mancanza di fiducia come ragioni principali alla base dell’esitazione. Gli unici che possono convincere esitanti e renitenti sono i medici, ovvero nessun appello, pubblicità, trasmissione televisiva, testimonial etc. può far cambiare loro idea. Diversi studi mettono in evidenza che i principali fattori psicologici che portano ad atteggiamenti anti-vaccinazione sono il pensiero cospirativo, il disgusto per il sangue o gli aghi e le visioni del mondo individualistiche o gerarchiche.

  

Gli psicologi clinici che studiano l’ansia e l’evitamento pensano che un fattore determinante sia la paura (in particolare la paura della morte), e come questa viene gestita. Infatti, diverse ricerche mostrano che pur a fronte dell’aumentata disponibilità delle persone a vaccinarsi, la paura dei vaccini non diminuisce. Le persone si vaccinano spinte da obblighi che impediscono di lavorare o svolgere molte attività se non si dimostra di essersi vaccinati. L’argomento ritenuto forte è che la vaccinazione costituisce la condizione per praticare la libertà, nel senso che le persone sono libere di fare alcune cose nella misura in cui aderiscono all’obbligo stabilito dallo stato. Una parte sostanziale della comunità probabilmente non vuole essere vaccinata, e sceglierebbe di non essere vaccinata, se non fosse per l’azione del governo. Nondimeno diversi studi, che riguardano le vaccinazioni pediatriche, mostrano che l’obbligatorietà non migliora l’adesione alle vaccinazioni, mentre genera sfiducia nella medicina scientifica e polarizzazioni sociali e culturali.

  

Come mai le persone si sentono bene con se stesse per la scelta di non vaccinarsi? Covid-19 ha già ucciso oltre cinque milioni e mezzo di persone a livello globale e ne ha infettate quasi 400 milioni.

  

La “teoria della gestione del terrore”: gli incapaci ad affrontare la  realtà della morte come un rischio si impegnano psicologicamente in forme di rifiuto

  

La teoria psicologica che forse spiega meglio, o alla quale comunque si deve anche guardare per dar conto di questi comportamenti, è la “teoria della gestione del terrore”, per cui le persone incapaci di affrontare la cruda realtà della morte che incombe come possibile rischio, spesso si impegnano psicologicamente in diverse forme di rifiuto. 

  
Centinaia di studi condotti in laboratori di psicologia sociale hanno dimostrato che minimi richiami alla morte (definiti “death primes”) inducono chi partecipa al test a difendere ancor più accanitamente le proprie credenze, religiose e culturali, in modo particolare la libertà di esprimerle e comportarsi secondo i valori che da tali credenze egli trae. Quando ai partecipanti al test viene detto che seguendo tali convinzioni si potrebbe rischiare la morte, essi mostrano persino aggressività verso coloro che coltivano credenze politiche o religiose diverse. Lo facciamo tutti di aggrapparci all’idea che stiamo agendo nel modo giusto o che siamo in qualche modo speciali, per cercare di alleviare il terrore della morte. E tanto più la nostra scelta viene messa in discussione o ci viene detto che davvero stiamo rischiando la vita, tanto più ci radicalizziamo nelle nostre convinzioni e scelte. Per far fronte alla nostra paura della morte, ci illudiamo di essere invincibili: la morte può colpire altre persone, ma non me.

  

Questo effetto è amplificato se i gruppi sociali a cui apparteniamo sostengono anch’essi opinioni simili. I richiami alla morte portano le persone a difendere ferocemente i valori e le credenze del loro gruppo. Nel contesto della pandemia, questo significa che si può diventare autoreferenziali, più diffidenti verso la scienza o le istituzioni, o più fiduciosi nella nostra superiorità o nella capacità del nostro dio di proteggerci, se questi atteggiamenti sono apprezzati e condivisi dalla nostra cultura o sottogruppo.

  

L’esitazione a vaccinarsi rimarrà un problema serio a livello globale, nel senso che se il virus continua a mutare il ricorso ai vaccini può rimanere per anni la strategia d’elezione nella lotta contro l’impatto sanitario della pandemia.

  

Metterla sul piano che dobbiamo vaccinarci per gli altri significa dar per persi gli esitanti. I medici sono gli unici che possono convincerli

  

Proprio per questo, bisognerebbe ripensare in profondità la comunicazione degli scorsi mesi. Le istituzioni farebbero bene ad abbassare il registro della retorica, a smettere di parlare di “dovere civico” e a parlare invece con i singoli dei vantaggi che essi possono trarre personalmente dalla vaccinazione. La diffidenza verso i vaccini si innesta su meccanismi cognitivi profondi, ma viene enfatizzata da un discorso pubblico che gioca su dinamiche “gruppiste”. Se la mettiamo sul piano che dobbiamo vaccinarci per gli altri, possiamo dar per persi gli esitanti, perché si avvicineranno ai gruppi motivati contro la vaccinazione. E non perché non siano persone altruiste, ma perché è necessario che i loro dubbi personali siano ascoltati e risolti da persone di cui pensano di potersi fidare. Nessuno può fare questo meglio dei medici.

   

Le misure di questi mesi hanno trasformato gli anti-vaccinisti in eroici alfieri della libertà personale contro il “sistema”. Le critiche ai vaccini sono un esempio di pensiero motivato, sono uno schema di pregiudizi che piega il mondo a se stesso. La responsabilità delle autorità, sanitarie e di governo, è non dare loro argomenti che si possano inserire perfettamente in quello schema, come tessere di un puzzle.

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