cattivi scienziati
La “coda” della pandemia non porta solo buone notizie. Uno studio
Aumentano le malattie cardiovascolari per i guariti dal Covid
La malattia e le conseguenze cliniche su lunga distanza causate da un’infezione da parte del virus SARS-CoV-2 continuano a sorprenderci.
Una settimana fa, un ampio studio è stato pubblicato su Nature.
Paragonando la cartella clinica dettagliata di oltre 150.000 individui che hanno avuto il COVID-19 e hanno usufruito dei servizi del Department of Veteran Affairs in USA, sopravvivendo per almeno 30 giorni all’infezione, con due altre coorti simili di oltre 5 milioni di individui ciascuno, mai infettati, una presa nel periodo in cui si sono verificate le infezioni nel primo gruppo, ed un’altra nel 2017, si è notato un notevolissimo incremento del rischio di malattia cardiaca nei soggetti infettati dal virus e ad esso sopravvissuti.
Per esempio, il rischio di ictus nell’anno successivo all’infezione è risultato del 52 per cento più alto nei soggetti guariti dal virus, mentre quello di arresto cardiaco risultava più elevato del 72 per cento nello stesso periodo.
Il risultato più significativo dell’analisi pubblicata è il seguente: per coloro che hanno oltre 65 anni, il rischio risulta essere più elevato anche nel caso di COVID-19 lieve o moderata, ed indipendentemente da fattori predisponenti come obesità, fumo eccetera.
Questo significa che, in qualche modo, l’infezione ha comunque una certa probabilità di provocare danno cardiovascolare di lunga durata; come questo avvenga e quale sia il meccanismo che si cela dietro questo solido dato clinico è a questo punto non chiaro.
A questo punto, è necessario trarre alcune conclusioni.
Se lo studio, già solido, dovesse risultare indipendentemente confermato, è evidente che le ondate successive di infezione e reinfezione con successive varianti virali potrebbero creare un notevole aumento del rischio cumulato di malattia cardiovascolare, per lo meno oltre una certa età. Non sappiamo se la specifica variante virale sia diversamente rischiosa, da questo punto di vista; diciamo, però, che le varianti pregresse (almeno prima di Omicron) non sembrano fare molta differenza.
Inoltre, poiché il rischio cardiovascolare su lunga distanza dei soggetti infettati risulta di gran lunga maggiore sia rispetto alla coorte di soggetti vaccinati che rispetto a quella del 2017, è evidente che è importante evitare al massimo anche le infezioni, sia attraverso misure non farmacologiche sia attraverso vaccini che funzionino ad ampio spettro contro le attuali e le future varianti. Oltre ad un’ulteriore evidenza, cioè, dell’efficacia clinica dei vaccini attuali contro le infezioni di un anno fa, nel prevenire attraverso il blocco delle infezioni prima di Omicron i successivi effetti cardiovascolari, vi è una prima indicazione del perché sia necessario aggiornare i vaccini: dobbiamo evitare il più possibile le infezioni, non solo la malattia da SARS-CoV-2, se vogliamo proteggere la popolazione da epidemie di altre condizioni a distanza di tempo dall’infezione.
Infine, visto il grandissimo numero di soggetti infettati da Omicron, se anche questa variante dovesse provocare lo stesso tipo di effetti a lunga distanza discusso sin qui, è evidente che i sistemi sanitari nazionali dovrebbero prepararsi ad un incremento di incidenti cardiovascolari come coda della fase acuta dell’epidemia.
Questo punto è critico: l’eccesso finale di morti in questi anni, infatti, deriva anche dal forte stress dei nostri sistemi sanitari. È ora di considerare le conseguenze sul lungo periodo non solo di questo stress (in termini di effetto delle mancate diagnosi e degli interventi ritardati), ma anche della stessa infezione, la quale, ad ogni nuovo studio, appare non scevra di effetti sulla salute della popolazione guarita anche su percentuali piuttosto alte e per condizioni di non banale trattamento.
Siamo pronti a non ignorare, per l’ennesima volta, i dati prodotti dai ricercatori, in grado di anticipare una futura crisi sanitaria?
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