cattivi scienziati
Una nuova chimica verde per ridurre il nostro impatto ambientale
I chimici sono stati bravi nel produrre polimeri plastici dalle caratteristiche di lavorabilità e durabilità desiderate. E’ tempo però di pensare anche alla fine del loro uso e alla loro distruzione completa: si può fare, e la ricerca sta mostrando la via
Non potremo risolvere nessuno dei problemi ambientali, sanitari e alimentari che abbiamo davanti, senza l’uso di una nuova chimica, la quale abbia una priorità ben definita: l’abbattimento dell’impatto ambientale. Vernici, farmaci, materiali diversi come la plastica, esplosivi, fertilizzanti, carburanti e in breve tutto ciò che ci circonda e non sia ricavabile direttamente da organismi viventi o risorse fisiche già disponibili in natura: tutto è il prodotto di processi chimici controllati con un livello di accuratezza senza precedenti, i quali, nel complesso, hanno lo scopo di estendere la disponibilità di composti chimici di nostro interesse, sia preesistenti, sia di nuova invenzione. Fino a oggi, i chimici hanno lavorato con un obiettivo: costruire legami chimici fra atomi diversi, in modo da ottenere molecole che avessero una funzione definita solo ed esclusivamente dall’uso che gli umani intendono.
Questa “lavorazione chimica” del nostro mondo, su scala amplissima, non è priva di conseguenze: le molecole che immettiamo nell’ambiente, su scale inimmaginabili solo due secoli fa, hanno molteplici proprietà, che nel complesso disturbano in moltissimi modi diversi la chimica biologica e abiogenica del nostro mondo, intervenendo a scala diversa in una miriade di processi differenti. Moltissimi di questi effetti perturbanti, alla fine, si rivolgono contro diverse specie viventi, inclusi noi stessi; eppure, non è pensabile una vita umana a “impatto chimico zero”, perlomeno non alla scala di popolazione cui siamo giunti. Per questo motivo, è fondamentale cambiare la chimica che utilizziamo. Ho intenzione, a partire da questo articolo, di mostrare che cosa la ricerca nel mondo sta esplorando, per cambiare il modo di usare la sintesi chimica.
Cominciamo da un primo, ovvio esempio: quello della plastica. Un inimmaginabile volume di questo materiale – anzi, sarebbe meglio dire dei diversi tipi di materiale che chiamiamo plastica – è disperso ogni anno nell’ambiente. Gli effetti non sono solamente estetici – magari lo fossero: ormai tutti mangiamo plastica, respiriamo e siamo letteralmente immersi in questo composto. La cosa non è priva di conseguenze, né per la nostra salute, né per quella degli altri organismi viventi, ed è per giunta in grado di interferire sia meccanicamente sia chimicamente con diversi processi naturali; per giunta, una volta che i rifiuti plastici siano stati ridotti dalle forze ambientali a dimensioni sub-millimetriche, per giunta, essi diventano ubiqui, contaminando ogni sorta di ambiente.
Il punto è che i chimici sono stati fin troppo bravi nel produrre polimeri plastici dalle caratteristiche di lavorabilità e durabilità desiderate; i legami atomici che hanno creato e i processi di sintesi messi a punto consentono di ottenere materiali che avevano esattamente le qualità richieste per il loro uso umano. E’ tempo invece di pensare anche alla fine del loro uso e alla loro distruzione completa: si può fare, e la ricerca sta mostrando la via.
Susannah Scott dell’Università della California, Santa Barbara, ha dimostrato che le poliolefine, materiali plastici che comprendono l’usatissimo polietilene, possono essere attaccate con speciali catalizzatori generando molecole più piccole senza doverle degradare termicamente (consumando molta energia e producendo prodotti pericolosi). Queste molecole più piccole sono poi riutilizzabili in detergenti, vernici o prodotti farmaceutici. Meglio ancora, si stanno studiando materie plastiche che possono essere poi scomposte in materiali che nutrono il suolo. La plastica ideata da Ting Xu a Berkeley contiene minuscole capsule con enzimi. Il materiale può essere lavorato, riscaldato e modellato a piacere. Alla fine del suo uso, lo si immerge in acqua tiepida per circa una settimana: questo rilascia gli enzimi, che digeriscono la plastica e forniscono piccole molecole nutrienti per diversi tipi di microorganismi.
Questi sono due esempi fra quelli più interessanti in sviluppo; ma la ricerca è ancora agli inizi, ed è necessario spingere perché si ampli e continui ben oltre le cosiddette “plastiche verdi” attualmente in uso, la cui biodegradabilità è comunque inferiore a quanto si vorrebbe e le cui proprietà meccaniche e di lavorabilità non competono ancora con le plastiche derivate da idrocarburi fossili. Cambiare le nostre abitudini serve, ma non basta, perché l’inquinamento è ormai elevatissimo; una nuova chimica verde, guidata da una salda consapevolezza ecologica, è dunque necessaria e benvenuta.
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