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Ombre sul modello Svezia nella gestione del virus. Uno studio

Giovanni Rodriquez

Cure e mascherine negate, nessuna forma di controllo nelle scuole, insabbiamento e manipolazione dei dati. Il fallimento dell'approccio laissez-faire "moralmente, eticamente e scientificamente discutibile”

La Svezia negli ultimi due anni è stata più volte oggetto di feroci discussioni tra chi criticava la sua strategia di mitigazione del Covid improntata su approccio laissez-faire nei confronti della circolazione del virus, e chi invece la guardava come ad un possibile modello di convivenza con il virus. Un primo studio scientifico sistematico, pubblicato su Nature lo scorso 22 marzo, getta però ombre inquietanti su questo modello di gestione della pandemia. Qui gli autori dello studio, scienziati di università del Belgio, della Svezia e della Norvegia spiegano infatti come la Svezia, nonostante fosse “ben attrezzata per evitare che la pandemia di Covid diventasse grave”, durante il 2020 abbia registrato tassi di mortalità Covid “dieci volte più alti rispetto alla vicina Norvegia”. In questo rapporto si è tentato di indagare i motivi di questa netta divergenza. L’analisi parte da un presupposto: nel 2014, l'Agenzia di salute pubblica svedese si è fusa con l'Istituto per il controllo delle malattie infettive; la prima decisione del suo nuovo capo (Johan Carlson) è stata quella di licenziare e spostare sei professori, tra i più autorevoli consulenti scientifici, all’Istituto Karolinska. “Con questa configurazione, l’autorità mancava di competenza e poteva ignorare i fatti scientifici”, spiega il rapporto. 

   
Sotto il profilo politico, dopo che il parlamento aveva approvato emendamenti temporanei alla legge sulle malattie trasmissibili (Smittskyddslagen), il governo e l'Agenzia per la salute pubblica avevano i mezzi legali per imporre misure più forti, come la chiusura di ristoranti, centri commerciali o aeroporti. Si sarebbero potute introdurre misure per le scuole così come imporre l’obbligo di mascherine. Si è però deciso di non fare nulla di tutto questo. Nel rapporto si ricorda in tal senso come “c'è stato solo un piano ufficiale di gestione della crisi rilasciato durante il periodo della pandemia. Questo piano è stato emesso dal ministero della Giustizia nel giugno 2020, aggiornato nel settembre 2020, e si è concentrato sull'impatto della pandemia sulla società”. I punti chiave includevano: non diffondere paura e panico, prevenire disordini sociali e limitare l'impatto sull'industria/economia/settore alberghiero. Questo piano però, si sottolinea, “non include nulla riguardo all'assistenza sanitaria, alla capacità sanitaria o alle misure di controllo delle infezioni”.

   
A causa di queste scelte non sono mancate le ricadute in termini di salute
. “Durante la primavera del 2020 – spiegano gli autori – molte persone non sono state ricoverati negli ospedali e non hanno nemmeno ricevuto un esame medico poiché non considerate a rischio, con il risultato che queste morivano a casa nonostante avessero cercato aiuto”. Non mancano anche dettagli più inquietanti, come le citate istruzioni di triage disponibili nella regione di Stoccolma secondo le quali gli individui con comorbidità, indice di massa corporea superiore a 40 kg/m2, età avanzata (80+) non dovevano essere ricoverati in unità di terapia intensiva, poiché "era improbabile che si riprendessero”. Nel rapporto su quest’ultimo punto si chiarisce che, sebbene sia stato contestato che queste indicazioni siano state realmente attuati nella pratica, “la distribuzione per età dell'ammissione alle unità di terapia intensiva suggerisce fortemente un bias di selezione per l'ammissione all'unità di terapia intensiva basato sull’età”. Nonostante i segnali preoccupanti di diversi ospedali che avevano superato i loro limiti, l’Agenzia per la salute pubblica e il governo continuarono a sostenere che c’erano ancora letti di terapia intensiva disponibili in Svezia, e che la loro strategia non era da ritenersi fallita poiché erano stati in grado di mantenere il contagio a livelli che il sistema sanitario poteva gestire. Tuttavia, la Svezia “ha ottenuto il punteggio più basso sull’accessibilità dei letti di terapia intensiva in base a uno studio di 14 paesi europei che ha esaminato l’impatto sul tasso di mortalità da Covid”. Il problema non si è però limitato ai soli reparti di terapia intensiva. Un’altra parte pesantemente criticata nello studio sull'approccio svedese è stata quella relativa al controllo della prevenzione e la gestione degli anziani infetti, sia nelle strutture di assistenza agli anziani che nell'assistenza domiciliare. “Pochissimi anziani sono stati ricoverati per Covid. Un trattamento appropriato (potenzialmente salvavita) è stato negato senza esame medico, e senza informare il paziente o la sua famiglia o chiedere il permesso”.

  
Quanto all’utilizzo delle mascherine per proteggersi dal contagio, l’Agenzia della Salute Pubblica svedese ha raccomandato il loro utilizzo negli ospedali e nelle case di cura solo il 25 giugno 2020 (dopo più di 5.000 morti). Riguardo alla popolazione generale, gli autori ricordano come l’Agenzia della sanità pubblica e il ministero della Sanità e degli affari sociali hanno “scoraggiato l'uso delle mascherine e hanno affermato che queste sono inefficaci, pericolose e diffondono la paura”. L'uso delle mascherine è stato dunque attivamente scoraggiato o "non permesso" in ambienti sanitari, case di riposo, scuole e altri ambienti, anche con il risultato che “i professionisti sono stati licenziati e alle persone è stato negato l’accesso”. 

  
Un capitolo dello studio è stato poi dedicato alla scuola dal momento che i bambini sono stati una delle categorie più colpite da questa pandemia, “poiché la strategia svedese era fortemente contraria a qualsiasi chiusura delle scuole o a misure per proteggerli”. Sostanzialmente non è stata presa quasi nessuna forma di controllo delle infezioni in molte scuole e l’uso delle mascherine non è stato permesso. Inoltre, segnalano gli autori, “l'Agenzia della Salute Pubblica ha negato o declassato il fatto che i bambini potessero essere infettivi, sviluppare malattie gravi o diffondere l'infezione nella popolazione”.

   
Infine, il rapporto mette in evidenza la mancanza di trasparenza da parte delle autorità svedesi arrivando a parlare di “segretezza, insabbiamento e manipolazione dei dati”. In conclusione per gli autori la risposta svedese alla pandemia è stata “caratterizzata da un approccio laissez-faire moralmente, eticamente e scientificamente discutibile”. C'era più enfasi sulla protezione dell'"immagine svedese" che sul salvare e proteggere vite adeguando le scelte politiche alle evidenze scientifiche. Nello studio si denunciano anche i “tentativi di rivedere la storia cambiando o cancellando documenti ufficiali, comunicazioni e siti web”. Le autorità svedesi coinvolte non hanno fatto autocritica, “non si sono impegnate in nessun dialogo ufficiale e aperto e hanno ingannato il pubblico trattenendo informazioni corrette e persino diffondendo informazioni fuorvianti”. Una bocciatura senza appello dunque, non solo per il modello svedese di contrasto al Covid ma anche sul comportamento delle sue istituzioni negli ultimi due anni.

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