cattivi scienziati
Il dibattito sulla guerra è uno scontro di visioni del mondo svincolate dai fatti
Come accaduto nel caso della pandemia e dei vaccini, il dibattito sulla guerra può portare a un generale sconforto del pubblico, assordato dagli esperti, e peggio ancora ad una sua polarizzazione
Molte volte, nel corso della storia, gli scienziati sono stati chiamati – o hanno preso direttamente l’iniziativa – a pronunciarsi sulla guerra, spesso confondendo due piani diversi.
Da una parte c’è la guerra in generale, come forma di attività organizzata tipica della nostra specie; e su questa, biologi, sociologi, fisici, economisti, psicanalisti, giuristi, storici ed esponenti di moltissime discipline diverse, ciascuno forte del proprio armamentario di nozioni, concetti e metodi, hanno senz’altro fornito produzioni interessanti e in qualche caso di valore universale e attuale. Da un’altra parte ci sono le guerre particolari, e su queste, quasi sempre, gli esperti – anche militari – non riescono quasi mai a fornire interpretazioni davvero utili di ciò che accade, le quali vadano oltre qualche banale considerazione che anche il non specialista può trarre da sé.
Mi rendo conto che suddividere in questo modo le infinite discussioni che si svolgono in occasione di ogni guerra, e anche al di fuori di esse, possa comportare la perdita della grana fine dei discorsi e possa apparire grossolano; ma la ragione per questa divisione così netta sta in una sua certa utilità, per quello che riguarda la comprensione non della guerra in sé, ma del frastuono, del disaccordo e del generare sobbollire caotico del discorso sulla guerra cui assistiamo in questo periodo, una condizione che reputo pericolosa perché, proprio come accaduto nel caso della pandemia e dei vaccini, può alla fine portare a un generale sconforto del pubblico, assordato dagli esperti, e peggio ancora ad una sua polarizzazione, condizione questa che prelude a guai peggiori.
La discussione su una guerra specifica e sui fatti mentre questi accadono, in particolare, soffre di un pregiudizio quanto alla sua obiettività, ben evidenziato da Quincy Wright, il quale in uno dei primi e più importanti studi generali sul fenomeno della guerra – A study of War, del 1942 – scriveva quanto segue:
“La gente è spinta ad appoggiare la guerra dalle parole e dai simboli, piuttosto che dai fatti e dalle circostanze. Si può quindi dire che la guerra moderna tende a riguardare le parole piuttosto che le cose, le possibilità, le speranze e le aspirazioni, piuttosto che i fatti, i risentimenti, le condizioni".7
E ancora:
“La guerra quindi si fonda, nella civiltà moderna, su una elaborata costruzione ideologica sostenuta, attraverso l’educazione, da un sistema di linguaggio, di leggi, di simboli e di valori. La spiegazione e l’interpretazione di questi sistemi è spesso altrettanto lontana dalla realtà dei fatti quanto le spiegazioni primitive della guerra in termini di esigenze magiche, rituali o di vendetta. La guerra, nell’età moderna non sgorga da una situazione ma da un’interpretazione altamente artificiosa della situazione stessa”.
Se le cose stanno così, e Wright non è certo stato il primo ad avere queste idee, allora l’analisi di una singola e specifica guerra, come quella in corso in Ucraina, non dovrebbe tanto essere rivolta a cercare relazioni causali in fatti storici, come i sostenitori dell’una o dell’altra parte si affannano a voler fare, quanto piuttosto alla comprensione di due diversi apparati simbolici posti a confronto; apparati, questi, che devono essere abbastanza ben condivisi all’interno di ciascun blocco, e che proprio per questo scavano un solco difficilmente colmabile da una discussione razionale fra le parti, essendo a questa pregressi e sovrastrutturati. Il frastuono che sentiamo, le contrapposizioni mediatiche amplificate che sono nostra quotidiana esperienza, alla fine, possono essere ridotte a questo: allo scontrarsi di miti potenti, di stati interiori e visioni del mondo svincolate dai fatti che accadono sotto gli occhi di tutti, e riferite piuttosto a personali costruzioni interpretative della realtà, le quali, contrariamente a quanto avviene in ambito scientifico, non possono essere messe controfattualmente alla prova, per decidere quale funzioni e quale no.
Questo intendevo, qualche giorno fa, quando scrivevo su queste pagine che la selezione naturale di gruppo è una forza in grado di promuovere la guerra ad ampia scala nella nostra specie, perché i gruppi stessi possono fondarsi sulla condivisione di culture e valori, invece che di geni (come avviene nelle altre specie): il collante simbolico che permette di costruire gruppi sociali di dimensioni molto superiori alla piccola comunità genetica dei parenti è lo stesso che può portare quei gruppi a competere, premiando gli individui indipendentemente dalla qualità del loro genoma, ma in forza della propria adesione valoriale al gruppo giusto. Questo tipo di selezione di gruppo è a tutti gli effetti paragonabile ai meccanismi della selezione darwiniana classica su base genetica che opera nelle guerre intraspecifiche fra formiche, come la comune formica rossa; l’unica differenza sta nel meccanismo di formazione del gruppo, e, da un punto di vista evolutivo, nel risultato finale. Mentre infatti nel caso delle formiche a trasmettersi a prevalere nelle generazioni successive è il genoma delle colonie vincitrici, nel caso umano ciò che si trasmette è la cultura del vincitore, mentre la varietà genetica rimane, in linea di principio, non particolarmente intaccata, a meno che la guerra non sia di vastità e scala tale da provocare la riduzione della popolazione umana pochi genomi, rispetto al numero di partenza; in ogni caso, questi non saranno quelli che individualmente mostrano caratteristiche adattative migliori, ma solo quelli che hanno avuto la ventura di viaggiare accoppiati alla cultura dei vincitori.
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