cattivi scienziati
In Australia una pianta ibrida di Posidonia mostra come funziona l'evoluzione
Che si parli delle poche settimane in cui emergono le varianti del Covid o delle migliaia di anni necessari al mutamento degli ecosistemi, la verità è che non esiste un "equilibrio naturale"
Certe volte, per rendersi ben conto di come funziona il processo di evoluzione Darwiniana, basta seguire per pochi mesi l’emersione di nuovi genomi in una popolazione e il graduale rimpiazzo di quelli vecchi. È il caso delle varianti di SARS-CoV-2: virus con nuove proprietà che conferiscono qualche vantaggio, in termini di trasmissibilità, evasione della nostra risposta immunitaria eccetera, rapidamente invadono la nicchia ecologica rappresentata dai nostri corpi, estinguendo i ceppi precedenti in poche settimane.
Altre volte, invece, l’impressione di apparente stabilità degli ecosistemi e degli organismi per migliaia di anni nasconde il processo evolutivo, creando l’illusione di un inesistente e primigenio “equilibrio naturale” che tanto danno fa nel sorreggere ideologie retrograde, prive di base scientifica. Se per esempio guardassimo alla Shark Bay nell’estremità occidentale dell’Australia, un posto idilliaco con uno strepitoso ecosistema marino, potremmo immaginare che la prateria sommersa formata da una pianta presente anche nel Mediterraneo, la Posidonia, rappresenti un punto di equilibrio stabile; se infatti potessimo tornare indietro per migliaia di anni, quell’ambiente apparirebbe ancora al suo posto.
Ora i ricercatori hanno determinato che dietro questa apparente stabilità si nasconde in realtà un processo adattativo e un’invasione biologica ancora in corso. In un articolo appena pubblicato, sono emersi fatti degni di un film di fantascienza: la Posidonia che si osserva in Shark Bay rappresenta in realtà il risultato dell’ibridazione spontanea di due specie strettamente correlate, le quali hanno costituito un superorganismo la cui crescita ed espansione sembra inarrestabile. Una singola pianta ibrida, cioè, si estende oggi per oltre 180 chilometri quadrati, costituendo il più grande organismo vivente finora identificato e battendo di oltre un ordine di grandezza il record precedente, detenuto da un fungo. La pianta attuale, il clone che si è spropositatamente espanso, risulta possedere 40 cromosomi, invece dei soliti 20, a seguito dell’originaria ibridazione; di questi, 20 appartengono alla Posidonia australis, e gli altri ad una seconda specie, per ora sconosciuta.
A partire da un singolo evento in cui si è formato l’ibrido originale, che si stima sia avvenuto 4500 anni fa, il nuovo organismo ha preso il sopravvento su tutte le 10 praterie di Posidonia esaminate nella Shark Bay, tranne una. Un gigantesco, antichissimo individuo geneticamente ibrido – un OGM, se vogliamo - che continua a conquistare spazio a scapito delle altre specie, probabilmente perché qualche tratto genetico acquisito è particolarmente vantaggioso ed in grado di aumentare la fitness del suo detentore, forse a causa della maggior tolleranza ad alte temperature e salinità, ipotizzano gli autori dello studio.
Ora, questo esempio illustra come, a tutte le scale temporali, il processo di evoluzione darwiniana tiene ben lontani gli ecosistemi da una condizione di equilibrio perpetua, anche quando le condizioni ambientali rimangano relativamente costanti. Che si osservi l’evoluzione della popolazione di SARS-CoV-2 svolgersi nell’arco di poche settimane, o quella di una popolazione di Posidonia in cui un singolo individuo prende il sopravvento in migliaia di anni, la vera essenza delle comunità biologiche è la loro variazione, non l’adattamento ad uno stato ottimizzato e fisso nel tempo: la pressione selettiva cambia verso di continuo, ma anche la semplice casuale emersione di individui più tolleranti di un maggior numero di circostanze o meglio adattati ad una singola condizione molto diffusa produce l’alternarsi degli organismi sul palcoscenico di Darwin.
Proprio la consapevolezza del fatto che non vi è uno stato ripristinabile, ma un insieme di processi di cambiamento che avvengono a ritmi diversi e in maniera continua, deve aumentare la coscienza degli effetti deleteri che l’azione umana può avere per noi stessi: non si tratta, cioè, del danno arrecato ad un inesistente “stato di equilibrio”, quanto dell’interazione con un processo dinamico, in cui noi operiamo alla cieca accelerandone e variandone le traiettorie, senza nessuna possibilità di governarne l’evoluzione neppure nel breve periodo. Perturbare un sistema dinamico, si sa, è molto più pericoloso che non allontanare dall’equilibrio un sistema stabile; se poi il sistema dinamico esibisce un comportamento caotico – come è appunto il caso dell’evoluzione degli ecosistemi – allora il rischio di arrivare in condizioni fortemente dannose per molti organismi viventi, inclusa la nostra specie, è molto alto. Non è un equilibrio che dobbiamo ripristinare, ma una dinamica evolutiva troppo veloce che dobbiamo smettere di energizzare.