cattivi scienziati
La nostra rappresentazione della realtà limita ciò che possiamo conoscere
Assumere come misura universale il nostro modo di indagare la realtà è ingiustificato, e forse i nostri discendenti cognitivi guarderanno a noi esattamente come noi guardiamo al nostro intelligentissimo cane
In un articolo del 1960 il fisico teorico ungherese-americano Eugene Wigner si è chiesto perché le nostre teorie matematiche "funzionano così bene" nel catturare la natura della nostra realtà fisica, in una sorta di risposta ideale all’affermazione fatta secoli prima da Galileo, quando affermò che “il grande libro della natura è scritto in linguaggio matematico”. In entrambi i casi, si afferma con fiducia che il nostro universo sia matematizzabile, cioè conoscibile scientificamente, almeno da un punto di vista generale, con un livello di profondità arbitraria avendo sufficiente tempo e sufficienti mezzi cognitivi per esplorarlo. Recentemente, tuttavia, il matematico americano David Wolpert ha formulato in un suo nuovo scritto quella che credo sia la domanda che può più di ogni altra riassuma l’atteggiamento di umiltà che ogni scienziato, ma sarebbe meglio dire ogni pensatore, dovrebbe avere. La domanda è la seguente: siamo davvero sicuri che la realtà sia catturabile completamente dalla nostra scienza, attraverso la protesi cognitiva fornita dall’approccio logico-matematico e sperimentale?
Forse la nostra matematica non è per niente efficace quanto pensiamo. Forse essa può catturare solo un minuscolo frammento di realtà. Forse il motivo per cui ci sembra così efficace è perché il nostro raggio di visione è limitato a quella scheggia, a quei pochi aspetti della realtà che possiamo concepire, a causa del modo stesso in cui è costruito il nostro cervello da un punto di vista biologico. In questa ottica, la domanda più interessante è se le nostre menti, aumentate dalla nostra tecnologia e dalla nostra logica matematica, avranno mai le capacità minime necessarie per afferrare la realtà nella sua interezza, oppure se sia possibile discernere dei limiti oltre i quali non sarà mai possibile spingerci. Attenzione: non ci si chiede se arriveremo mai ad afferrare l’intera realtà, ma solo se vi sono limiti alle nostre capacità che impediscono l’esplorazione di parti ampie di essa.
Il problema non sono cioè quei fatti che ci sono sconosciuti semplicemente perché non possiamo osservarli, come ciò che accade all'interno dell'orizzonte degli eventi di un buco nero. Questi eventi non possono essere conosciuti da noi, e forse non lo saranno mai, per il semplice motivo che le nostre capacità ingegneristiche non sono all'altezza del compito, non per ragioni intrinseche ai limiti della scienza e della matematica che la nostra mente può costruire. Possono essere in altre parole immaginati e simulati, non accertati, almeno per ora, ma qui la domanda è diversa. Vi sono cioè dei costrutti cognitivi necessari per comprendere parti importanti del nostro universo fisico, i quali sono inimmaginabili e inconcepibili per un cervello come quello umano, e di cui quindi non potremo mai essere consapevoli?
Una possibilità, che è quella su cui si appunta l’attenzione di Wolpert, è che i nostri limiti cognitivi siano intrinseci alla forma in cui il pensiero umano può essere espresso. Si consideri innanzitutto che questa forma non è propria semplicemente del pensiero matematico e scientifico: è stato ben stabilito, dal filosofo americano Daniel Dennet e da altri, che la forma della logica matematica, e più in generale delle scienze, coincide esattamente con la forma del linguaggio umano. In effetti, a partire da Wittgenstein, è diventato un luogo comune identificare la matematica come un caso speciale del linguaggio umano, con un proprio tipo speciale di grammatica. Anche le scienze meno formali sono ancora strutturate in termini di linguaggio umano, utilizzando stringhe finite di simboli, come la matematica. Questa è dunque la forma della nostra conoscenza. La nostra comprensione della realtà non è altro che un ampio insieme di sequenze di stringhe finite governate da regole per la loro composizione, ciascuna contenente elementi di un insieme finito di possibili simboli.
Ora, potremmo pensare che ci siamo evoluti esattamente in modo da avere uno strumento cognitivo, ovvero questa capacità di formulare mediante stringhe di simboli una descrizione della realtà e le questioni su di essa, capace di abbracciare tutto il conoscibile. Tuttavia, come sottolineato a mio giudizio correttamente da Wolpert, non c’è ragione di credere di essere il culmine del processo evolutivo: la fitness cognitiva dei nostri discendenti, non solo quelli generati mediante evoluzione naturale dalla nostra specie, ma anche considerando tutte le specie organiche o inorganiche che saremo in grado di creare, potrebbe essere superiore alla nostra, e potrebbe comportare modi di descrivere la realtà per noi incomprensibili, ma più potenti dei nostri.
In definitiva, quindi, può ben darsi che la nostra rappresentazione della realtà attraverso pensiero, matematica e linguaggio limiti intrinsecamente ciò che possiamo conoscere; in questo caso, per definizione, non potremo mai nemmeno immaginare ciò che resta al di fuori, se esiste, quanto si estende e in che consiste. Tuttavia, assumere come limite e misura universale il nostro modo di formalizzare la descrizione della realtà e di indagarla è ingiustificato, e forse i nostri discendenti cognitivi guarderanno a noi esattamente come noi guardiamo al nostro intelligentissimo cane, incapace anche solo di immaginare la teoria atomica o l’esistenza di un quasar.