cattivi scienziati
Caro Palù, ma quale fine della pandemia? Un ripasso di Darwin
Sembra proprio che nel nostro paese sia difficile far proprie anche le più banali conseguenze della teoria dell'evoluzione naturale. Nonostante le dichiarazioni del presidente dell'Aifa, siamo alla vigilia di un nuovo esperimento evolutivo molto più complesso di quello del 2020
Sembra proprio che nel nostro paese sia difficile far proprie anche le più banali conseguenze del meccanismo illustrato da Darwin oltre un secolo e mezzo fa. Gilberto Corbellini, non a caso, commentando le ultime dichiarazioni di Giorgio Palù che per l’ennesima volta annuncia la fine della pandemia, scrive infatti: “Omicron domina stabilmente l’ecologia virale di Covid-19 da un anno, e dovremmo stare tranquilli per il futuro. L’ultimo giudizio discende da scarsa cultura evoluzionistica, dato che non esiste alcuna prova sperimentale che non possa cambiare lo scenario epidemiologico in qualche contesto ecologico a elevata trasmissione, come la Cina in questi giorni, a causa di sottovarianti di Omicron (che sono già più diverse da Omicron, di quanto questa fosse diversa da Delta) o di qualche nuova variante (che sarebbe chiamata Pi)”. Corbellini ha ragione, e vorrei brevemente spiegare perché.
Innanzitutto, una premessa: la Cina è un paese in cui l'immunità vaccinale è scarsa, sia per il basso numero di dosi per abitante somministrate, sia per la minore efficacia dei vaccini utilizzati. Anche l'immunità di popolazione conseguente a infezione è presumibilmente piuttosto bassa, proprio per le politiche molto restrittive sin qui adottate. La circolazione di diverse varianti di Omicron in quel paese, a ritmo sempre più elevato dopo il rilassamento della politica “zero Covid”, significa, inevitabilmente, emersione di ceppi nuovi, con aumentato vantaggio riproduttivo (fitness) rispetto ai predecessori. Rispetto al 2020, però, è il panorama immunitario con cui il virus si trova a doversi confrontare è molto cambiato. Nel 2020, l'intero pianeta era immunologicamente naive: tutti erano allo stesso punto, e il virus Wuhan poteva diffondersi egualmente bene in ogni parte del mondo, mutando in maniera casuale, senza incontrare una resistenza immunitaria di rilievo. La fitness del ceppo Wuhan, dunque, era sostanzialmente ovunque uguale. Nel 2023, invece, i nuovi ceppi che sorgeranno in Cina, sotto selezione soprattutto per una replicazione più efficiente, non troveranno una situazione pari a quella nel resto del mondo.
Dal punto di vista dell'immunità di popolazione, infatti, la vaccinazione ha creato un ambiente replicativo molto variegato, diverso da nazione a nazione secondo l'efficacia delle varie campagne. Inoltre, nel tempo le nazioni sono state esposte a diverse ondate di diversi ceppi, con mutazioni diverse; anche l'immunità derivante da infezione, dunque, è abbastanza variegata nei continenti e nelle nazioni al di fuori della Cina. La combinazione fra diverse immunità da vaccino e immunità da infezioni pregresse con diversi ceppi virali genera, nel complesso, un panorama immunologico e di fitness per SARS-CoV-2 che è estremamente lontano da quello omogeneo del 2020: le condizioni locali possono essere permissive o ostative per un ceppo che altrove si diffonde bene o male, e questo ha frammentato la pandemia sempre più in una serie di "epidemie specialistiche" di ceppi diversi che si trovano a fare i conti con condizioni diverse.
Ora, è ancora possibile che dalla Cina esca qualcosa di così diverso, da annullare qualunque immunità precedente, replicando le condizioni di Wuhan 2020; è quello che Corbellini chiama il ceppo pi, oppure anche un virus completamente diverso, la cui emersione nel futuro è certa. Tuttavia, a meno di questo particolare caso, dobbiamo tener conto che la pressione immunitaria in Cina è al momento bassa, e quindi non è detto che ciò che ne emergerà avrà capacità immunoevasive tali, da superare qualunque precedente immunità di popolazione in qualunque angolo del mondo, come accaduto nel 2020; questo anche considerando che le ultime varianti derivate da Omicron sono giù molto immunoevasive anche nei confronti di precedenti infezioni da BA.2 e BA.5, proprio perché sono emerse in paesi ad alta immunità, lontani dalla Cina. Piuttosto, è possibile che dalla Cina emergano diverse varianti, un ribollire simile a quello che osserviamo oggi in altri paesi, di cui più di una possa avere fitness almeno localmente elevata in altre nazioni; potremmo cioè avere più di una variante diffondersi in zone diverse, invece che un'omogenea ondata virale come avvenne nel 2020.
Una "pandemia di endemie", ovvero il frammentarsi sempre più accentuato delle sottopopolazioni virali, a seconda delle condizioni che incontrano localmente: è questo il fenomeno che, in condizioni di frammentazione immunitaria della popolazione mondiale, è dimostrabilmente lo scenario che ci attende con maggiore probabilità, a causa della perdita di sincronizzazione delle varianti e della diversificazione della risposta immunologica locali.
Dal punto di vista della patogenicità, è impossibile far previsioni circa le capacità di questo "laboratorio" di varianti virali, eccetto una: è difficile che fronteggeremo un singolo virus con una patogenicità ben definita in tutto il mondo, per le stesse ragioni appena illustrate. Siamo, insomma, alla vigilia di un nuovo esperimento evolutivo molto più complesso di quello del 2020, che vedrà coinvolti molti più genomi virali distinti; e questa tendenza è difficilmente reversibile, almeno fino al prossimo "virus nuovo" in senso immunitario, che potrebbe anche non essere un coronavirus.
In queste condizioni, è raggelante vedere un presidente di AIFA che, eccedendo le sue competenze, dichiara la fine della pandemia, immediatamente seguito dal Direttore Generale della Prevenzione del Ministero, Gianni Rezza, il quale giustamente dichiara il contrario. La frammentazione del percorso evolutivo di un virus pandemico è un processo inevitabile; quella della comunicazione istituzionale in tema di salute, tuttavia, vorremmo evitarcela.
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