cattivi scienziati
La nostra specie non può più evolvere? Una falsa credenza
La nostra tecnologia, si crede, è tale da tenerci ormai al riparo dalla maggior parte delle pressioni selettive che l’ambiente può esercitare. Ma la ricerca dimostra il contrario
Tra le varie credenze spontaneamente diffuse nella maggioranza della popolazione vi è quella collegata al fatto che la nostra specie permanga in una sorta di “stasi evolutiva”, ovvero che abbia raggiunto un punto della propria storia in cui la selezione naturale non è più operante, per cui l’evoluzione darwiniana non è più in atto.
La nostra tecnologia, si crede, è tale da tenerci ormai al riparo dalla maggior parte delle pressioni selettive che l’ambiente può esercitare, così che non vi è più la scomparsa nella popolazione mondiale di quei genomi più “svantaggiati” a favore di quelli mediamente più favoriti rispetto a quei fattori di selezione. Naturalmente, molti sono a conoscenza del fatto che certi tratti oggi molto diffusi nella popolazione mondiale sono stati selezionati solo negli ultimi millenni della nostra storia: la tolleranza al consumo di latte da adulti, per esempio, oppure certe caratteristiche di varie componenti del sistema immunitario a seguito della peste e dell’ampia diffusione di altri patogeni.
Ma oggi la mortalità pre-riproduttiva è bassa come mai prima in una parte di mondo sufficientemente ampia (anche se non maggioritaria), così che ognuno ha una possibilità di lasciare discendenti, indipendentemente dal proprio genoma, perché – si crede - la vita moderna ci protegge e in gran parte ci isola dalle nemesi che hanno sterminato intere popolazioni passate. Siccome poi la popolazione umana si rimescola continuamente ad un tasso oggigiorno molto rapido, in mancanza di selezione operante l’evoluzione darwiniana si sarebbe fermata.
È un’idea ancora più confortante dell’antropocentrismo: siamo noi il prodotto di vertice non solo dell’intera evoluzione biologica, ma anche di quella della nostra specie. Come sempre accade per questo genere di idee, è però una convinzione sostanzialmente sbagliata, ed abbiamo i dati per dimostrarlo. Bisogna fare una considerazione preliminare: contrariamente alla maggioranza delle specie viventi, nella nostra specie anche mutazioni che non impattano sulla sopravvivenza prima della riproduzione o sul successo riproduttivo possono essere ampiamente sfavorevoli. Questo accade perché siamo una specie che ha uno stadio prepuberale straordinariamente lungo e molto dipendente dai genitori: se questi, nonostante si siano riprodotti, muoiono prima della tardiva indipendenza dei propri figli, complessivamente la prole ne risentirà. Pertanto, la durata della vita per oltre una decina di anni dopo l’età riproduttiva media è un tratto su cui la selezione naturale agisce potentemente, sfavorendo i figli di chi muore troppo precocemente.
L’effetto della selezione è in questo caso così forte, che è stato possibile osservarlo nell’arco temporale di una sola generazione. Un gruppo di ricerca ha esaminato da vicino i genomi di 60.000 persone di origine europea nel nord della California e 150.000 persone provenienti da un massiccio sforzo di sequenziamento del Regno Unito. I ricercatori volevano sapere se le varianti genetiche cambiano frequenza tra individui di età diverse, rivelando la selezione all'opera entro una o due generazioni. La biobanca comprendeva relativamente poche persone anziane, ma disponeva di informazioni sui genitori dei partecipanti; quindi, i ricercatori hanno cercato connessioni tra la morte precoce dei genitori e varianti genetiche presenti nei loro figli. Nella generazione dei genitori si è così trovata una correlazione tra la morte prematura negli uomini e la presenza nei figli (e quindi presumibilmente nei genitori) di un allele del recettore della nicotina che rende più difficile smettere di fumare.
Molti degli uomini che morirono giovani avevano raggiunto l'età adulta nel Regno Unito negli anni '50, un'epoca in cui molti uomini britannici avevano l'abitudine di fumare un pacco di sigarette al giorno. Questo significa che la prole dei genitori che portava certi geni era svantaggiata, rischiando di perdere il padre molto prima del tempo, a causa di un’abitudine culturale che funzionava da fattore selettivo.
La controprova è stata ottenuta esaminando generazioni più recenti: poiché le abitudini sul fumo sono cambiate, la pressione per eliminare l'allele è cessata e la sua frequenza è rimasta invariata nelle generazioni più giovani. Effetti simili a quelli descritti per questo caso sono stati misurati per geni che predispongono a malattie cardiovascolari: il rapido cambio alimentare, osservato in un paio di generazioni, ha cambiato il rischio che certe varianti di quei geni conferiscono, portando al loro rapido declino.
I dati di questo e di simili altri studi, quindi, indicano una cosa precisa: per alcuni tratti che influenzano la durata della vita, la selezione darwiniana sulla nostra specie può essere molto rapida, e manifestarsi in pochissime generazioni, proprio come avvenuto nel passato per i tratti che conferivano resistenza ai parassiti durante le grandi epidemie.
Se il fattore di selezione è “naturale” o “culturale”, naturalmente, poco importa. L’unico elemento rilevante è che agisca su scala globale, come certe abitudini di consumo o una pandemia, e che perduri per qualche generazione, perché la nostra specie cambi sotto i nostri stessi occhi. Siamo solo elementi intermedi di passaggio, anche nell’evoluzione della nostra stessa specie.
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