Cattivi scienziati
Il processo evolutivo fra longevità, socialità e trasmissione culturale
Una delle domande che da sempre si pongono gli scienziati è se la lunghezza della vita sia un vantaggio o un rischio per le specie: nei mammiferi ad esempio la durata massima della vita varia ampiamente. I risultati di un nuovo studio
La durata massima della vita dei mammiferi varia ampiamente. I toporagni dalla vita più breve, ad esempio, sopravvivono circa due anni, mentre le balene della Groenlandia possono raggiungere 200 anni di età. Si pensa da tempo che la socialità sia un fattore che, nei mammiferi, è correlato alla longevità: per esempio, le femmine con socialità ampia e stabile di una specie di babbuino vivono più a lungo delle femmine emarginate della stessa specie. Anche comparando specie diverse, tenuto conto della massa corporea (che a sua volta è per ragioni metaboliche legata alla longevità), si erano osservati esempi eclatanti: se si paragonano animali della stessa massa e che consumano lo stesso tipo di cibo, come i toporagni e certi pipistrelli insettivori, si trova che i toporagni solitari vivono solo pochi anni, mentre alcune specie di pipistrelli molto socievoli possono vivere per 30 o 40 anni.
Si è sempre immaginato, e sporadicamente verificato, che questo effetto fosse legato alla protezione offerta da malattie e predatori da parte di gruppi ampi di individui, all’allevamento comunitario dei piccoli che ne diminuisce la mortalità grazie all’adozione da parte del gruppo e alla protezione offerta e anche alla maggior efficienza di foraggiamento collettivo, che consente di ottimizzare meglio lo sfruttamento delle risorse alimentari da parte delle specie sociali. Il punto, tuttavia, è che la vita di gruppo comporta anche numerosi svantaggi: innanzitutto, la competizione interindividuale, soprattutto di natura sessuale e alimentare, ma anche e soprattutto l’esposizione ad un rischio molto maggiore di infezione da parte di svariati patogeni, la cui trasmissibilità è ovviamente aumentata dall’elevato numero di contatti interspecifici che la vita sociale comporta.
Per capire se, nei mammiferi, nelle specie sociali prevalessero i vantaggi o i rischi in termine di lunghezza della vita media degli individui, una nuova ricerca ha correlato la durata media della vita in questa classe di vertebrati con la socialità delle varie specie. In particolare, i ricercatori hanno raccolto dati sulla longevità media di 974 specie di mammiferi. Hanno quindi suddiviso queste specie in tre categorie: solitarie, che vivono in coppia e che vivono in gruppo. Quando i ricercatori hanno confrontato questi tre gruppi con i dati sulla longevità, hanno scoperto che, dopo opportuna normalizzazione per alcuni fattori confondenti quali la massa corporea, i mammiferi sociali tendono a vivere più a lungo delle specie solitarie – quasi il doppio - e questa differenza risulta statisticamente significativa.
Non solo: analizzando il livello di espressione di geni comparabili in 94 specie di mammiferi appartenenti ai tre gruppi formati in base allo stile di vita sociale, i ricercatori hanno trovato 31 geni i cui livelli di attività relativa erano correlati sia con la longevità che con una delle tre categorie sociali prescritte. Molti di questi geni sembrano avere ruoli nel sistema immunitario, che possono avere importanza quando si contrastano i patogeni che si diffondono attraverso il gruppo sociale. Altri geni erano associati alla regolazione ormonale, compresi alcuni ritenuti in grado di influenzare i comportamenti sociali. Questi geni, se la correlazione sarà supportata da future analisi causali, potrebbero dunque essere regolati per favorire la socialità e tamponare gli effetti negativi della vita di gruppo, come la maggiore esposizione a malattie infettive, spiegando come le abitudini sociali e la durata della vita dei mammiferi si possano essere evolute insieme.
Inoltre, a partire dalle conclusioni ottenute in questo studio è possibile fare un passo ulteriore. Se la vita sociale risulterà davvero causalmente connessa ad una maggiore longevità individuale, e contemporaneamente se è vero che essa è pure connessa ad una maggiore protezione dei piccoli (un dato ormai certo), si apre la possibilità di un periodo di formazione e apprendimento per questi ultimi di estensione maggiore, rispetto a quanto non avviene per le specie solitarie. Il fenotipo culturale e di addestramento che si tramanda in specie sociali come le orche, le grandi scimmie sociali e gli stessi umani, quindi, potrebbe dovere la sua stessa possibilità di trasmissione proprio alla formazione di gruppi sufficientemente ampli e stabili da allungare la finestra temporale in cui è possibile per i genitori addestrare i piccoli, e contemporaneamente prolungare il periodo di immaturità di questi. Longevità, socialità e trasmissione culturale nella nostra ed in altre specie potrebbero dunque essere parti inestricabili di un comune processo evolutivo, almeno in partenza sotto l’egida della selezione darwiniana.
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