Cattivi scienziati
Il Dna ambientale e la confusione dell'albero della vita
Rispetto al disegno che Darwin appuntò sul suo taccuino, la fenomenologia dell'esistente risulta oggi molto più ingarbugliata e caotica di quanto si pensi. Lo dimostrano gli studi sull'informazione genetica
Spesso si tende a pensare che l’evoluzione naturale non permetta di conservare il “ricordo” delle specie passate. Quando cioè si verificano estinzioni di interi gruppi, e non di singole specie, sia per rari eventi catastrofici che, molto più frequentemente, a causa della graduale sostituzione dei vecchi gruppi con nuovi meglio adattati ad un ambiente in trasformazione perenne, si intende che l’informazione genetica degli organismi antichi sia andata perduta per sempre, per cui anche ove gli antichi tratti di quegli organismi dovessero ritornare ad essere utili, recuperarli negli organismi viventi richiede la loro indipendente rievoluzione, o l’evoluzione di tratti funzionalmente equivalenti. Le “invenzioni genetiche” sviluppate durante il processo di evoluzione darwiniana, cioè, sono nella visione storica dell’evoluzionismo legate ai loro portatori: scomparsi per qualunque accidente quegli organismi e i loro genomi, esse sono perse, a meno della casuale convergenza sugli stessi tratti da parte di altri gruppi di organismi viventi.
Questa visione è stata superata negli ultimi dieci anni, a causa dell’emergere di un nuovo settore di ricerca facilitato dallo sviluppo tecnologico: lo studio del cosiddetto Dna ambientale. In breve, grazie a nuove e più sofisticate tecnologie di raccolta di campioni ambientali, sequenziamento e ricostruzione bioinformatica, ci si è accorti del fatto che noi viviamo letteralmente immersi in una “nuvola” di Dna, proveniente dalla morte degli organismi più disparati e corrispondente alla più diversa varietà di informazione genetica. Per di più, questa informazione genetica non è particolarmente labile: abbiamo già visto su queste pagine come frammenti distinguibili del genoma di antichi esseri viventi appartenenti ad ogni regno possano persistere per più milioni di anni nell’ambiente, consentendo di ottenere informazione su interi ecosistemi e per di più da certi ambienti, come i sedimenti al di sotto dei fondali marini, è stato possibile recuperare batteri viventi, ovvero cellule con il Dna genomico completamente intatto e funzionante, dopo oltre 100 milioni di anni.
Ora è naturale chiedersi se questo Dna ambientale, così ubiquo e in certe condizioni così persistente, possa recuperare le sue funzioni andando a trasformare naturalmente organismi viventi. Se così fosse, infatti, questo implica la possibilità che tratti da tempo scomparsi, a causa dell’estinzione dei loro portatori, possono essere recuperati da organismi molto successivi a quelli, e con essi non imparentati; ovvero caratteristiche apparse da qualche parte nell’albero della vita, potrebbero, ove l’ipotesi sia vera, letteralmente “saltare” da un ramo all’altro e da un’epoca all’altra, così che il bricolage evolutivo potrebbe recuperare tratti con valore adattativo anche molto tempo dopo la scomparsa dei loro portatori.
Le cose, almeno per i batteri, stanno esattamente così: molti studi hanno dimostrato la possibilità di questi organismi di recuperare e riutilizzare il Dna ambientale, fino ai dati più recenti che dimostrano come questo possa essere uno dei principali meccanismi attraverso cui si propagano tratti come la resistenza agli antibiotici. Solo per menzionare il più recente degli studi, per ora pubblicato sotto forma di preprint, un gruppo di ricerca ha perfino precisamente definito le condizioni ambientali e i tipi di substrato più adatti a questo scambio di Dna tra batteri diversi per mezzo dell’ambiente, esaminandone le conseguenze in termini di evoluzione e cooptazione di tratti adattativi. Sono condizioni comuni e sono quelle in cui, per altro, è favorita anche la lunga conservazione di frammenti di Dna più o meno antico; ne deriva che la domanda che ci facevamo pocanzi, almeno nei batteri, ha risposta affermativa, e difatti è stato dimostrato nei batteri anche il riassorbimento di Dna di mammut, da ossa vecchie di 43.000 anni.
Ora, bisogna considerare come sia ben noto che dai batteri il Dna può farsi strada in molti organismi diversi. Per le piante, in cui il fenomeno è molto frequente, è ormai assodato che il trasferimento di Dna dal microbioma ha guidato l’evoluzione delle forme terrestri. In molti invertebrati, inoltre, ancora oggi si osserva trasferimento di Dna dai batteri, con vari significati adattativi; infine, anche tra piante e animali e in generale fra ogni tipo di organismo il fenomeno del trasferimento di frammenti di DNA, con valore adattativo, è ormai ben documentato.
Per questi motivi, dovrebbe essere ormai chiaro al lettore che l’albero della vita, disegnato per la prima volta da Darwin in suo taccuino, risulta ingarbugliato e confuso molto più di quanto comunemente si pensi da questo gran flusso di Dna, preso da un mare di informazione genetica in cui siamo costantemente immersi. A volte, in questo Dna è iscritta informazione adattativa di remotissimi esseri viventi che può tornare ancora utile in organismi moderni affatto imparentati con quelli che tale informazione evolvettero; ma comunque, moderna o antichissima che sia, l’informazione genetica dispersa nel Dna ambientale è un serbatoio di variabilità cui continuamente attingono gli organismi viventi, Ogm per natura.
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