l'analisi
Il caso “carne coltivata” e la paura del futuro in un paese nostalgico
La carne sintetica mette alla prova l’opportunità di fare innovazione di prodotto e non solo di processo. E potrebbe essere l’occasione per accompagnare alla ristrutturazione di un intero settore alimentare
Le barricate alzate dalla Coldiretti e dal governo contro la tecnologia della carne coltivata, che non è matura per vederla nei nostri piatti, sono la riprova di un paese nostalgico che ha paura del suo futuro. Qui non si tratta di difesa di interessi nazionali o di garanzie sanitarie, si tratta di decidere se crediamo nell’innovazione, nella ricerca e nella capacità di entrare da protagonisti in un nuovo potenziale mercato.
Da mezzo secolo, ogni volta che i governi di ogni ispirazione e credo politico si sono trovati davanti a questi dilemmi, hanno sempre privilegiato il già visto e il già fatto, per ergersi a paladini dei votanti di oggi, marginalizzando quelli di un domani. La volatilità dei governi e delle maggioranze spinge a fare scelte di retroguardia dove manca il respiro dello statista. Poi leggiamo le statistiche che ci ricordano che perdiamo con l’emigrazione intellettuale l’1 per cento di pil l’anno. In realtà perdiamo molto di più: perdiamo la speranza di aprire nuove attività produttive, perdiamo le classi dirigenti, esportiamo cultura e voglia di emergere e di rischiare, tutto per cercare di arrestare inevitabili cambiamenti. Se avessimo sempre fatto prevalere queste paure non sarebbero arrivati dagli altri continenti mele, ciliegie, mais, patate, pomodori o melanzane; non ci sarebbero stati i trattori ad alleviare il lavoro manuale di uomini e buoi; non ci sarebbero state le innovazioni del mais ibrido oltre 70 anni fa.
Anzi quel mais era “Il Mais Miracoloso”, come recita il titolo del libro di Emanuele Bernardi, (Carocci, 2014). Anche allora ci siamo messi a difendere il mais locale (ottofile, uncinato, biancoperla, etc.). Anche in quel caso alzammo le barricate per un mais che produceva da quattro a otto volte in più per ettaro. Dovette intervenire il Papa Pio XII che a marzo del 1950 ricevette “in udienza” il mais americano, “Dono dei Cattolici Americani a Sua Santità” e benedicendo quei semi ha fatto la fortuna di allevatori ed agricoltori padani. Quella lezione i nostri genetisti agrari l’avevano imparata bene e avevano portato il paese al vertice europeo dell’innovazione genetica per decine di piante migliorate: poi al volgere del millennio la paura del futuro ci ha fatto accartocciare su nostalgie e anacronismi.
Come si può pensare di resuscitare i grani antichi come fosse l’avvenire se producono meno della metà dei grani attuali, anche perchè adatti a un clima che in un secolo è stravolto? Recuperare la biodiversità vuol dire disporre di una miniera di geni inestimabili, ma recuperare tutte le vecchie piante significa negare i cambiamenti climatici. Oggi la carne coltivata si affaccia all’orizzonte e mette alla prova l’opportunità di fare innovazione di prodotto e non solo di processo. Mette in discussione un settore che è chiamato a elevare prezzi e qualità, ma scendere di volumi viste le tante diete vegetariane. Potrebbe essere l’occasione per accompagnare alla ristrutturazione un settore che ci porta non solo carni, ma anche salumi, latticini e formaggi di grande pregio: ottimizzare può significare salvare molte più aziende e molte più produzioni di qualità. Ma soprattutto per fare carne coltivata servono esperti di cellule staminali, di biologia cellulare e di differenziamento e l’Italia ha una qualità di scienziati nel campo – non solo della ricerca, ma anche dell’applicazione in clinica delle innovazioni – tra i primi al mondo, forse da podio. Oltretutto questi lavorano in Italia, non sono (ancora) dovuti fuggire all’estero: perché non investiamo su di loro? Poi magari non useremo quella carne coltivata, ma potremmo vendere il know-how. E non solo di carne bovina, perché non di pesci, molluschi o crostacei?
Nel 2025 si celebra il Giubileo, festa in origine ebraica annunciata dal suono dello Shofar, un corno di montone. In terra d’Israele gli allevatori (ricchi) restituivano ai miseri agricoltori le terre che gli avevano affittato, si condonavano i debiti e liberavano gli schiavi. Un nuovo ciclo della vita e dei commerci aveva inizio: potrebbe essere il tempo.
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