emergenza idrica
Un piano strategico per affrontare il problema siccità. Spunti
La carenza d'acqua è principalmente un problema agricolo e bisogna intervenire in questo campo. Ma gli interventi devono essere strutturali. Alcune proposte
Il decreto “Siccità” è arrivato. Bene che il governo abbia finalmente deciso di fare attenzione al problema. Speriamo. Già nel luglio del 2022 il precedente esecutivo aveva annunciato un piano di emergenza e un commissario. Poi non se n’è fatto nulla. Durante le elezioni del 2022, meno di due mesi dopo, di siccità non si è parlato. Un anno dopo siamo di nuovo qui. Ben venga, quindi, l’impegno del governo in questa primavera già difficile. Ma attenzione: l’acqua non è un derivato finanziario o il pil, concetti astratti che spesso il pubblico fatica a comprendere. Se un piano idrico funziona lo si vedrà rapidamente dal rubinetto della cucina e dallo stato dei campi. Come ebbe a dire Mike Tyson, “tutti hanno un piano finché non ti arriva un pugno in faccia”. In termini di pugni, la siccità non perdona.
Con questo annuncio, il governo ha fatto una scommessa importante. Un conto è annunciare un piano di emergenza a fine estate, come si è fatto in passato, nella speranza poi che la pioggia autunnale distragga tutti quanti. Un altro è annunciare interventi ad aprile, con un problema serio all’orizzonte estivo.
Vale quindi la pena esaminare con occhio critico ciò che il governo sta dicendo, nello spirito di contribuire a migliorarne le decisioni.
Giusto l’inquadramento che ha fatto il presidente del Consiglio di un problema che va affrontato in maniera strutturale. Cabine di regia, commissari a tempo, e interventi statali a fondo perduto sulle infrastrutture, però, sono un cerotto, non un intervento a cuore aperto. Nell’emergenza, si finisce per confondere sintomi e cause. Per esempio, le perdite di rete non hanno a che fare con la siccità. Gli italiani pagano poco per l’acqua e di conseguenza non investono nei sistemi di distribuzione, che perdono. È chiaro che a fronte della siccità, anche le reti potabili vanno in sofferenza, ma questo non significa che il problema siano le perdite.
Il problema della siccità è fondamentalmente agricolo. Qui i numeri importano. Quando si dice che in Italia si estraggono 20-30 miliardi di metri cubi per irrigazione a fronte di 10 miliardi per il potabile, si ha l’impressione che la distribuzione urbana sia un terzo del volume agricolo. Ma i dati sui prelievi sono fuorvianti senza contesto.
Solo metà dell’acqua che cade sul paese, circa 300 miliardi di metri cubi in totale, finisce in fiume e in falda. L’altra metà è intercettata dalle piante. La maggior parte di quest’ultima, oltre 100 miliardi, è usata dall’agricoltura. Per esempio, il grano pugliese dipende dalle piogge per il 90 per cento del suo fabbisogno d’acqua. L’irrigazione supplisce solo il 10 per cento per i mesi finali prima della mietitura. In quel caso, è evidente che se la pioggia cala anche solo del 10 per cento, la quantità di acqua irrigua deve raddoppiare per compensare. Le estrazioni per irrigazione da fiumi e falde sono quindi il sintomo parziale di qualcosa di ben più grande: il fabbisogno idrico totale agricolo.
Senza affrontare l’uso agricolo, quindi, non si va da nessuna parte. Tre sono le leve fondamentali. La prima è l’aumento di produttività per unità d’acqua. Questa non è solo una questione di efficientamento, ma anche di investimenti in agronomia, pratiche di coltivazione, e varietà meglio adattate a condizioni di aridità. Si parla spesso di irrigazione a goccia, inventata anni fa in Israele, come esempio di efficientamento. Ciò che si dimentica di menzionare è che l’irrigazione a goccia ha senso economico solo per alcuni tipi di piante, per le quali la produttività aumenta anche grazie al fatto che l’acqua e i nutrienti portati dai tubi sotterranei sono forniti direttamente alla radice, e che non necessitano di chilometri di tubi. Un campo di grano non ricade in questa categoria. Cosa si cresce determina la soluzione.
La seconda leva, fondamentale, è avere un sistema di licenze e diritti sull’acqua più dinamico. Questo significa avere un sistema che permetta a un utente, in caso di scarsità, di passare la propria acqua a qualcun altro che può produrre più valore, a fronte di un pagamento. Sistemi dinamici come questo esistono da migliaia di anni (basti pensare al mercato dell’acqua in Oman o a quello, molto più grande e recente, dei fiumi Murray-Darling in Australia). La questione è delicata poiché servono tutele per evitare monopoli, sistemi affidabili di misurazione dei flussi, e infrastrutture per rendere l’acqua fungibile. Richiede una modernizzazione del sistema agricolo che non può essere lasciata ai singoli agricoltori.
La terza leva è il commercio internazionale. Non c’è paese arido che non risolva il problema della scarsità d’acqua anche con un’attenta politica di importazioni ed esportazioni. Gli Emirati Arabi, notoriamente sabbiosi, non sopravvivono grazie a dissalatori ed efficientamento, ma grazie alle importazioni di ciò che non possono crescere localmente. Lo stesso vale per Israele. In termini di “acqua virtuale”, cioè di prodotti principalmente agricoli cresciuti all’estero con l’acqua di qualcun altro, l’Italia è già un importatore netto: ogni anno importa l’equivalente di due volte il flusso medio del Po, esportando meno della metà. A fronte di scarsità cronica si dovranno fare scelte strategiche su quali colture abbiano valore nazionale e quali possano essere importate.
Si badi, queste leve non sono sostituti di infrastrutture di stoccaggio idrico che pure sono necessarie per regolarizzare il flusso e gestire l’emergenza. Ma senza una strategia agricola di lungo periodo le infrastrutture, di gran lunga la leva più costosa per risolvere il bilancio idrico, si troveranno a inseguire un comparto agricolo sempre più assetato ed economicamente insostenibile. È una trasformazione industriale. Gli agricoltori italiani sono sofisticati, ma serviranno investimenti in ricerca e sviluppo, strategia commerciale, e legislazione sulla natura delle licenze. Questi sono gli elementi di un piano strategico per preparare il paese ad affrontare un cambiamento climatico che è già arrivato.
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