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cattivi scienziati

Il funzionamento della vista nell'uomo dimostra quanto è transgenica la natura

Enrico Bucci

Un nuovo studio pubblicato su PNAS descrive come e quanto l'evoluzione umana dipenda da pezzi di genoma riassemblati, ricuciti e rimescolati di continuo

Molte volte, anche su queste pagine, ho scritto di come l’evoluzione della vita su questo pianeta sia dominata da un maestoso flusso di materiale genetico fra organismi diversissimi, in maniera che nuove forme e nuove funzioni possono comparire nello spazio di poche generazioni in organismi transgenici che sono creati alla cieca a causa di questo processo. Più guardiamo alla base delle meravigliose forme e degli stupefacenti adattamenti dei viventi, più scopriamo i risultati di quella che potrebbe somigliare all’azione di un ingegnere genetico cieco e pazzo, invece che alle controllatissime e attente valutazioni fatte dai biotecnologi umani: pezzi di DNA, con o senza funzioni, attraversano i regni della vita, migrando più volte di qua e di là, e mantengono la propria funzione nel processo, oppure la perdono, per poi riguadagnarne di nuove nel nuovo ambiente genetico in cui si vengono casualmente a trovare. Un ultimo, meraviglioso esempio di cosa tutto questo significhi anche per noi stessi ci viene da un lavoro appena pubblicato su PNAS.

 

Per comprenderne la portata, dobbiamo ricapitolare insieme alcuni dei punti essenziali che riguardano il funzionamento della visione nei vertebrati dal punto di vista biochimico. I colleghi mi perdoneranno, ma semplificherò i dettagli il più possibile, sacrificando la precisione per la chiarezza. La nostra visione dipende a livello molecolare dal fatto che una molecola di vitamina A, il retinolo, può cambiare la propria forma tridimensionale passando da una più “contratta”, detta forma cis, ad una più “distesa”, detta forma trans. Questo cambio di forma avviene proprio in corrispondenza dell’assorbimento di un fotone; il passaggio del retinolo da cis a trans, all’interno di specifiche proteine in cui è ospitato, causa in queste ultime un cambiamento per adattarsi alla nuova forma di quello, e questo, a sua volta, innesca un processo biochimico che porta fino alla generazione di un impulso nervoso che raggiunge il cervello.

Una volta che ciò è avvenuto, il retinolo deve essere riportato nello stato iniziale, per “ricaricare” la proteina fotosensibile in modo da poter continuare ad essere stimolabile dalla luce nel modo appena descritto. Ciò avviene nei vertebrati in un modo diverso da quanto accade negli invertebrati. Nei primi, il retinolo trans è trasportato in cellule specializzate, ove un enzima dedicato lo riporta nella forma cis, e quindi è rispedito indietro nelle cellule della retina a “ricaricare” le proteine fotosensibili. In tutti gli altri animali, c’è bisogno di un secondo fotone per riportare in conformazione cis il retinolo; di conseguenza, la sensibilità alla luce dei vertebrati è migliore di quella degli altri animali.  La proteina che si occupa nei vertebrati di portare il retinolo trans nel luogo ove viene ritrasformato in forma cis, e poi di riportare indietro la forma cis per “ricaricare” i fotorecettori, si chiama IRBP, e ha una particolarità interessante: è ben conservata in tutti i vertebrati, a significare che l’antenato comune ad essi vissuto 500 milioni di anni fa, e quindi anche nostro, disponeva già del gene corrispondente, che manca invece nell’occhio di tutti gli altri animali.

 

Ma da dove è venuto fuori questo gene, che ha reso l’occhio del gruppo cui apparteniamo così sensibile alla luce? Ebbene, nel lavoro appena pubblicato si è dimostrata la sua origine: si tratta di un gene presente e diffuso in molti batteri, come dimostrato dalle analisi di similitudine del DNA della sequenza presente in tutti i vertebrati in paragone a quella di certi procarioti. Il “nostro” gene appare infatti ottenuto attraverso la ripetizione di quattro copie di un gene batterico specifico, come dimostrano sia la sequenza di DNA simile che la struttura tridimensionale conservata della proteina corrispondente; una doppia duplicazione di un gene acquisito da batteri, molto antica e avvenuta alla base dell’albero evolutivo dei vertebrati, ha generato la proteina IRBP, indispensabile per il trasporto del retinolo e quindi fondamentale per il funzionamento del nostro occhio. Ma le sorprese non finiscono qui: la proteina originale, nei batteri, è un enzima che serve a digerire le proteine di cui si alimentano quegli organismi. Durante la duplicazione di quel gene, attraverso una mutazione che nel frattempo è intercorsa si è persa l’antica funzione digestiva, mentre la forma tridimensionale ottenuta è risultata adatta a trasportare il retinolo. L’evoluzione, dunque, riutilizza DNA fra organismi diversissimi, ma senza necessariamente mantenere le funzioni originali, che anzi cambiano in funzione del contesto quando fortuitamente risultano selezionate positivamente nuove caratteristiche utili.

 

Non è finita qui: se i ricercatori hanno ragione, cioè se questo primo studio sarà ulteriormente rafforzato da analisi indipendenti, il reclutamento dello stesso tipo di proteina batterica è avvenuto anche da parte dei funghi, dove però la funzione digestiva si è mantenuta, e da parte di alcuni “cugini” dei vertebrati, ovvero gli anfiossi, ove una proteina batterica dello stesso gruppo è stata pure reclutata – ma non la stessa dei vertebrati. Per qualche ragione, probabilmente collegata all’ecologia dei batteri fonte di questo tipo di sequenze di DNA, la transgenesi è cioè avvenuta ripetutamente, portando ad esiti diversi in almeno tre gruppi di organismi; e chissà quanto altro materiale genetico è passato, senza che risultasse particolarmente utile o funzionale.  Come dimostra anche la biochimica della nostra visione, la natura è transgenica, riassembla, ricuce e rimescola di continuo ogni genoma: e dunque chi ha occhi per vedere, veda.

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