Cattivi scienziati
La carne sintetica impatta ancora troppo sull'ambiente. Ma non è una brutta notizia
Due studi confermano che le alternative all'allevamento sono ancora lontane dagli obiettivi di sostenibilità dichiarati. Ma proprio a partire dai dati si potranno affinare i metodi di produzione e migliorarne così la qualità
Quando scoppiò la tragicomica polemica governativa sulla carne coltivata, scrissi su queste pagine che, a parte le fregnacce sostenute dai politici, perché si accettino come reali i principali benefici vantati da coloro che vorrebbero portare questo nuovo prodotto sul mercato, bisogna che i ricercatori abbiano il tempo di fare le verifiche del caso, fino ad arrivare a delle metanalisi su ampi insiemi di dati che possano consolidare o smentire certe ipotesi. Un beneficio certo è quello del risparmio di vite animali. In aggiunta, come scrissi, “si ipotizza che l’adozione della carne coltivata, accoppiata alla graduale diminuzione degli animali d’allevamento, porterebbe benefici in termini di emissioni, energia, acqua e suolo consumati a causa della filiera zootecnica”; ma “questo è uno dei punti su cui condurre un’analisi scientifica accurata, anzi una metanalisi, perché non è possibile fidarsi ciecamente di chi sta sviluppando i prodotti”.
Ora, giunge a puntino un nuovo studio appena reso pubblico, non ancora sottoposto a revisione paritaria, che si occupa in maniera approfondita proprio di valutare l’impatto ambientale che potrebbe conseguire all’adozione su larga scala della carne coltivata per rimpiazzare la zootecnica tradizionale. La carne coltivata si ottiene da cellule staminali animali, cresciute su uno scaffold opportuno, in un brodo nutritivo. Si è ampiamente sostenuto che in questo modo si raggiunga un minor impatto ambientale rispetto a quello della carne tradizionale, perché non si utilizzano terreno, mangimi, acqua da bere e farmaci quali gli antibiotici, non si usa energia per l’allevamento e la macellazione e non si dipende dal bestiame, emettitore di gas serra. Tuttavia, Derrick Risner dell'Università della California, Davis, e i suoi colleghi hanno scoperto che il potenziale di riscaldamento globale della carne coltivata, definito come gli equivalenti di anidride carbonica emessi per ogni chilogrammo di carne prodotta, potrebbe essere da 4 a 25 volte superiore a quello della carne bovina normale.
I ricercatori hanno condotto una valutazione del ciclo produttivo della carne coltivata stimando l'energia utilizzata in ogni fase con gli attuali metodi di produzione, un parametro che è grosso modo indipendente dal tipo di carne prodotta (cioè dal tipo di cellule coltivate). Il brodo nutritivo necessario è risultato avere un forte impatto ambientale, perché tutti i suoi componenti (zuccheri, fattori di crescita, aminoacidi, vitamine ed eventualmente lipidi) comportano forti costi energetici. In particolare, non solo la produzione di tali componenti è di per sé energivora, ma soprattutto la purezza di grado farmaceutico sin qui richiesta e utilizzata si fonda su processi quali ultrafiltrazione e cromatografica, per evitare che batteri o tossine di tipo diverso possano contaminare la preparazione e quindi il prodotto finale. Il livello di purezza farmaceutico, che è quello dei processi approvati da Fda per la produzione dei prodotti autorizzati, è importante per garantire la crescita delle cellule animali senza la concorrenza di batteri, non solo per questioni di sicurezza alimentare, ma anche e soprattutto perché questi sono dei competitori di crescita così efficienti da far fuori le cellule animali stesse, impedendo l’ottenimento del prodotto voluto.
Ora, a gennaio una società di consulenza finanziata in parte da un gruppo di difesa della carne coltivata denominato Good Food Institute aveva pubblicato un’analisi per la quale l’impronta energetica e di carbonio della carne coltivata sarebbe inferiore a quella della carne bovina; ma, per ottenere questo risultato, si era assunto che invece della purezza di grado farmaceutico, il ciclo produttivo utilizzasse gli standard dell’industria alimentare, meno stringenti e quindi meno energivori e costosi dal punto di vista ambientale. Alla luce di questo dettaglio, le due analisi sono congruenti: gli attuali metodi di produzione, approvati dal regolatore americano, sono in realtà più impattanti dal punto di vista ambientale della zootecnia tradizionale.
Ecco dunque che, prima di realizzare il potenziale promesso in termini di minor impatto ambientale, i promotori della carne coltivata devono lavorare, sia in laboratorio che in produzione, almeno sui fronti seguenti. Il primo consiste nel dimostrare che, passando ad un livello di purezza di tipo alimentare invece che farmaceutico, il ciclo produttivo possa ancora avere rese sufficienti. Il secondo passo deve essere la dimostrazione al regolatore che, dopo il passaggio anzidetto, il prodotto finale ottenuto è comunque sicuro dal punto di vista alimentare e privo di contaminanti pericolosi. Solo a valle dei due passaggi precedenti si potrà ottenere quell’impatto ambientale significativamente inferiore sin qui vantato, particolarmente integrando fonti di energia rinnovabile nel ciclo produttivo. Come ciascuno può avvedersi, le belle idee, anche quando sono promettenti, devono prima camminare sulle gambe dei dati, per rivelarsi anche vere e sostenibili.
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