Cattivi Scienziati
Ragioni per difendere e promuovere la biodiversità
A fronte di effetti positivi non comprovati a sufficienza dalla scienza o addirittura smentiti, vi è di contro un numero maggiore di benefici certi, che si devono proprio alle varietà naturali. Ecco perché l'aumento dell'eterogeneità biologica è un vantaggio per gli ecosistemi
Il 22 maggio appena trascorso è stato dichiarato “giornata mondiale della biodiversità”; vorrei quindi approfittare di questa ricorrenza per fare, da biologo, un po’ di luce su cosa si intenda portare in questa occasione all’attenzione di tutti. Da più parti, sentiamo promuovere la conservazione e l’incremento della biodiversità come valori, e siccome, almeno a parole, questo obiettivo è incorporato ormai dalla politica a vari livelli, nazionali ed internazionali – e dunque per tramite dell’amministrazione pubblica tutti noi siamo e saremo sempre più spinti ad azioni coerenti in tal senso - credo sia innanzitutto necessario avere ben chiaro di cosa si stia parlando, sia in quanto alla definizione del bene che si intende tutelare, sia in quanto a quale sia l’effettivo valore che risiederebbe in tale tutela.
Come mi ricorda sempre il mio amico Paolo, perché una conversazione sia utile bisogna essere ben sicuri che si intenda discutere della stessa cosa, tanto più se si intende arrivare a un accordo che influenzi il nostro agire, come in questo caso. In prima battuta, si potrebbe pensare che alla base della definizione di biodiversità di un dato ambiente vi sia la varietà di specie in quell’ambiente. È una definizione questa che però è problematica in molti casi: uno zoo, per esempio, sarebbe per tale definizione a maggior biodiversità di un pascolo di montagna, e dunque, per quanto attiene alle politiche di incremento della biodiversità, dovremmo promuovere la costituzione di zoo. Allo stesso modo, le varietà colturali di una singola specie come, ad esempio, quelle di certi alberi da frutto o della vite, che si intendono preservare come fonte di biodiversità per la nostra agricoltura, non potrebbero ricadere all’interno della definizione, trattandosi, in ogni caso, di singole specie. Per motivi del tipo di quelli illustrati, nella moderna scienza ecologica la biodiversità si misura su più livelli, con appositi indici utili per ciascun livello, indici che poi, riuniti in appositi profili, consentono di paragonare e valutare la diversità biologica della comunità vivente che occupa un dato ambiente.
Si parte dalla diversità tassonomica, che non è proporzionale semplicemente al numero di diverse specie, ma anche al numero delle altre categorie tassonomiche, di ordine superiore; così, per fare un esempio estremo, un ambiente in cui sono presenti centinaia di specie, ma tutte appartenenti solo a batteri, sarà considerato meno diverso di uno in cui vi è un numero paragonabile di specie, ma appartenente a tutti i regni viventi. Questa diversità è direttamente correlata agli indici di varietà genetica e morfologica delle specie presenti in un certo ambiente: quanto più quell’ambiente contiene organismi distanti e variegati in quanto a genetica e fenotipo, tanto più esso sarà considerato ad alta diversità biologica – il che spiega l’esempio appena fatto, così come spiega perché si considerino a maggior diversità biologica le colture con molte differenze varietali (geneticamente e morfologicamente distinguibili) rispetto a quelle caratterizzate da maggior omogeneità, indipendentemente dal fatto di considerare una singola specie. Non basta: si considererà, infatti, maggiormente diversa una comunità di organismi in cui vi sia una maggior differenza di adattamenti funzionali, ovvero di diversi modi di procurarsi l’energia necessaria ad alimentare il proprio metabolismo, di comportamento per sfuggire ai predatori e di adattamenti a condizioni ambientali più varie possibili.
La diversità funzionale si misura attraverso indici di complessità metabolica complessiva di una comunità vivente (legati a quante siano le risorse sfruttabili come alimento, a quanti siano i passaggi di trasformazione possibili, alla varietà di fonti energetiche non alimentari eccetera), comportamentale (più difficili da misurare, legati per esempio al complesso dei moduli comportamentali cognitivi ed innati attuati per esplicare funzioni definite) e adattativa (legati alla varietà di adattamenti fisiomorfologici non connessi direttamente al metabolismo, ma ad esempio alla protezione dalle condizioni avverse, allo sfruttamento di quelle favorevoli e alla riproduzione). Sin qui, lo zoo del nostro esempio iniziale sarebbe da considerarsi ad alta diversità biologica, e per quanto riguarda i parametri indicati lo è di certo; ma vi è un ulteriore livello da considerare, ovvero quello degli ecosistemi. Un ecosistema, in particolare, è definito dalle relazioni funzionali fra specie diverse: consumo primario, predazione, simbiosi, cooperazione non obbligata, parassitismo, competizione per le risorse fisiche e metaboliche sono tutti esempi di relazioni che coinvolgono specie diverse e definiscono la cosiddetta rete ecologica.
La complessità di questa rete e della sua eventuale evoluzione nel tempo, misurabili per una data comunità di viventi grazie a parametri derivati dalla teoria dei grafi, fornisce un ulteriore parametro per misurare l’eterogeneità biologica, ed è, naturalmente, quella che distingue ad esempio uno zoo da un pascolo alpino, perché nel primo le interazioni fra specie diverse saranno limitatissime, mentre nel secondo saranno comuni, rendendolo maggiormente biodiverso. Tenendo presente questa definizione multilivello di biodiversità, che incorpora la varietà tassonomico/genetica, quella funzionale e quella ecologica, ci si può a questo punto chiedere perché, dato un certo ambiente, è preferibile mantenervi una elevata biodiversità. Abbiamo cioè bisogno di parametri obiettivi per esaminare quale possa essere il valore, positivo o negativo, di una politica che promuove la biodiversità. Ci soccorre in tal senso una estesa rianalisi dei dati di letteratura, pubblicata su Nature nel 2012, che esamina 25 diversi effetti comunemente attribuiti all’aumento della biodiversità: anche se vecchia di oltre un decennio, questa revisione ha considerato più di 1700 studi precedenti, e rappresenta perciò ancora un lavoro molto solido e affidabile. Apprendiamo da questa analisi che un aumento di biodiversità in termini di specie di piante presenti in un dato ambiente, a parità di individui e biomassa, aumenta la resa in legno di una foresta e quella in foraggio dei pascoli, conferisce resistenza all’ingresso di piante alloctone invasive, aumenta il sequestro di anidride carbonica (ma non necessariamente lo stoccaggio), favorisce la rimineralizzazione dei nutrienti e accresce la materia organica nel suolo. Inoltre, una maggiore varietà di piante diminuisce l’abbondanza di parassiti vegetali, fra l’altro anche accrescendo i loro nemici naturali, e infine diminuisce la prevalenza di fitopatologie.
Per quello che riguarda la biodiversità animale, come esempio di effetto positivo gli autori trovano che un aumento delle specie di pesci stabilizza la produzione degli allevamenti. Invece, vi sono molti casi in cui le prove sono contrastanti o mancano dati solidi: mentre la elevata diversità genetica delle piante allevate aumenta per esempio le rese delle coltivazioni, non è chiaro se questo valga anche a livello di specie diverse o sia sufficiente la varietà di cultivar; in nessun caso è certo che la stabilità di tali rese sia aumentata dalla biodiversità delle piante, e questo vale anche per la produzione forestale e del foraggio. La capacità di stoccare carbonio e la sua correlazione alla biodiversità vegetale non è provata, essendovi evidenze contrastanti, così come contrastanti sono le prove circa la diminuzione dei parassiti all’aumento della biodiversità animale. Persino il più classico degli effetti invocato di solito, l’aumento dell’efficienza di impollinazione all’aumentare della biodiversità degli impollinatori, appare per ora non supportato, perché anche in questo caso i dati sono contrastanti. Il ruolo della varietà delle piante nel controllo dell’erosione, la migliore umidità dei suoli e – di interesse in questi giorni – il miglior contenimento delle piene, non mostra un sufficiente supporto generale, per mancanza di dati. Vi sono poi casi in cui le aspettative sono decisamente contraddette dai dati: una maggior varietà di specie vegetali, per esempio, non è correlato a un aumento della produttività primaria, e una maggior biodiversità delle acque non è correlata alla loro purificazione.
Naturalmente, anche senza considerare che ulteriori prove sono emerse nei dieci anni e passa dalla pubblicazione del lavoro qui discusso, un punto dovrebbe essere chiaro: a fronte di vantaggi non comprovati a sufficienza o addirittura smentiti, ve ne è un buon numero di certi, tutti correlati all’aumento di biodiversità di specifici componenti dei diversi ecosistemi studiati; e questo senza considerare altri vantaggi, più antropocentrici ma non meno importanti, quali i valori ricreativi, culturali ed estetici che la biodiversità promuove. Le ragioni di chi intende tutelare la biodiversità sembrano quindi ben fondate; ma come e dove è possibile promuovere la diversità biologica? Ne parleremo più avanti.
cattivi scienziati
Un altro promotore della pseudoscienza al potere in America
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